Gioca meglio di Nereo [Rocco, leggendario allenatore e, prima, calciatore di talento] /
il filosofo Amedeo
Quando penso all’Università (concetto distinto da quello di “Collegio”, che è sempre stato un universo a parte), il primo nome che si affaccia alla memoria è invariabilmente quello di Amedeo G. Conte.
Il corso di Filosofia del diritto, di cui era – più che semplice docente – vero e proprio ispiratore, fu di gran lunga il più affascinante e coinvolgente fra tutti quelli (non molti, a dire il vero) che frequentai con assiduità: forse perché era quello meno “giuridico” fra tutti gli esami del corso di laurea; più probabilmente per l’aura che circondava il professore.
Conte era un personaggio geniale e amato da molti dei suoi studenti: per quanto mi riguarda, l’unico tra i miei professori universitari per cui abbia provato autentico affetto, oltre che stima. Le sue lezioni erano un’esperienza strepitosa: un mix di maieutica dai risultati sorprendenti e momenti di umorismo irresistibile che costringeva a tenere sempre altissima l’attenzione e creava un coinvolgimento totale.
Era amato, dicevo, e a sua volta amava i suoi studenti, perlomeno quelli da cui riceveva l’attenzione che pretendeva: erano parecchi, tra quelli che frequentavano le sue lezioni. Gli piaceva organizzare serate in pizzeria e perfino gite fuori porta: indimenticabile quella di fine corso a Nervi, con tanto di partita di pallone – conservo ancora la maglia, un improbabile numero 9 – tra i due corsi “rivali” di Filosofia e Teoria generale del diritto. Non a caso, tutti gli ex compagni di facoltà che frequento tuttora (a parte i compagni di Collegio) li ho conosciuti in quell’anno 1999-2000 grazie al corso di Filosofia del diritto.
Per quanto mi riguarda, da quell’annata – e dalla successiva in cui ottenni dall’Università un posto di tutor al suo servizio: il mio primo lavoro retribuito! – ho imparato moltissimo, e molto al di là delle nozioni oggetto di studio. A scrivere una tesi, ad esempio; i concetti di performatività e controperformatività; a esporre in pubblico; a relazionarmi con i compagni di corso (che fino ad allora avevo sostanzialmente ignorato, tutto immerso nella fantasmagorica vita collegiale); a montare delle mensole (a casa sua, una volta, durante l’anno di tutorato: mi regalò in cambio una pila di libri oltre a 50 Euro – “il lavoro deve essere pagato” mi disse, e fu il primo di due persone eccezionali che mi rivolsero queste stesse parole); a prelevare ingombranti mappamondi da locali che apparentemente non ne avevano bisogno; a pronunciare l’aggettivo “scandinavo” con l’accento sulla penultima; che “cfr.” non è abbreviazione di “confronta” ma di “confer“; a coltivare una certa autostima. Eccetera.
Dopo la laurea, ho avuto poche occasioni di frequentarlo: ho subito lasciato l’Università e iniziato a lavorare in un’altra città. Lo rimpiango un po’, ma così è la vita.
Oggi pomeriggio andrò a rendergli l’ultimo saluto nel cortile dei Caduti dell’Università di Pavia: sono certo che non sarò l’unico dei suoi studenti. Nel frattempo, Amedeo G. Conte segna di testa e insegna che è il valore di una giacca è proporzionale al suo numero di tasche.