All’inizio di quest’anno avevo commentato la sentenza della Corte d’Appello di Torino che, accogliendo in parte la domanda di alcuni lavoratori, aveva equiparato i rider a lavoratori subordinati (solo) per quanto riguarda il trattamento economico loro spettante, escludendo però qualsiasi tutela in ipotesi di licenziamento illegittimo. La Corte aveva così applicato una norma del Jobs Act (l’art. 2 del decreto legislativo n. 81/2015), interpretandola però in senso restrittivo.
Avevo scritto all’epoca che lo scenario più probabile, a quel punto, sarebbe stato quello in cui
Il governo proverà a cavalcare l’onda lunga di questa sentenza per convincerle a rinunciare a qualche briciola, in cambio di una regolamentazione del settore che, in cambio un contentino almeno simbolico ai lavoratori, possa garantire il grosso dei profitti per le imprese. […] In effetti negli ultimi tre giorni si rincorrono già le voci sull’imminente “decreto sui rider”, che vanno esattamente in questa direzione.
C’è voluto un po’, ma all’inizio di settembre è stato effettivamente pubblicato il c.d. “decreto crisi”, al cui interno erano contenute sia alcune modifiche della disciplina applicabile a tutti i “collaboratori”, sia una nuova disciplina ad hoc per il “lavoro tramite piattaforme digitali”. Lo scorso 2 novembre il decreto è stato convertito in legge con alcune modifiche e il giorno successivo è entrato in vigore (per il momento solo in parte).
Le novità vanno esattamente nella direzione prevista (non era difficile) dieci mesi prima: vediamole.
Innanzitutto, viene modificata la formulazione dell’art. 2 del D.lgs. n. 81/2015: si tratta della norma, appartenente al pacchetto del Jobs Act, che estende alle collaborazioni continuative organizzate dal committente la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La modifica riguarda la previsione che possa trattarsi di collaborazioni prevalentemente, e non più esclusivamente personali (riprendendo la formulazione tradizionale per i lavoratori “parasubordinati”), e l’eliminazione della clausola per cui l’organizzazione da parte del committente doveva riguardare specificamente tempi e luogo di lavoro”.
Più che di un allargamento della platea di destinatari della norma, si tratta di un adeguamento della normativa all’interpretazione che ne era già stata data dai giudici. La modifica, infatti, si applica a tutte le collaborazioni continuative eterodirette, ma è pensata “su misura” proprio per i rider. A evitare dubbi al riguardo, viene aggiunta espressamente la precisazione che questa disciplina si applica “anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali“.
Il lato positivo è che in questo modo si rende incontrovertibile l’interpretazione corrente, che se non altro almeno garantisce ai rider e in generale a tutti i “collaboratori” continuativi la retribuzione e gli istituti (malattia, etc.) che spettano ai dipendenti veri e propri.
Molto negativo invece è che nulla si dica della tutela di questi lavoratori in caso di licenziamento illegittimo. Su questo punto bisogna ricordare che lo “stato dell’arte” è ancora oggi quello della Corte d’Appello di Torino, secondo cui i rider non hanno alcun tipo di tutela nel caso in cui il committente decida di interrompere il rapporto di lavoro: neppure si tratterebbe di un vero e proprio licenziamento.
La questione non è di poco conto. Se posso scegliere di mandare via chi voglio, quando voglio, senza alcun rischio, certamente manderò via quelli che producono meno, o si lamentano chiedendo i propri diritti, e mi terrò soltanto quelli che non alzano mai la testa.
Così stando le cose, e fermo restando che è compito degli avvocati dei lavoratori promuovere un’interpretazione più estensiva della norma, il dato di fatto è che oggi le tutele per i collaboratori continuativi – compresi i rider – rimangono considerevolmente minori perfino rispetto a quelle previste dalla vecchia “Biagi”. Con i vecchi contratti a progetto, infatti, tutte le collaborazioni coordinate e continuative in cui non fosse ravvisabile uno specifico e delimitato progetto erano destinate a trasformarsi in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con tutte le tutele annesse e connesse comprese quelle dell’Articolo 18.
Il decreto prosegue introducendo nell’impianto del Jobs Act una sezione specifica riguardante la “tutela del lavoro tramite piattaforme digitali”, destinata specificamente ai “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore attraverso piattaforme anche digitali“.
Si tratta di una tutela alternativa (e inferiore), e non aggiuntiva rispetto a quella stabilita per i collaboratori continuativi ed etero-organizzati, che consiste in:
- obbligo per il committente di fornire per iscritto il lavoratore “ogni informazione utile per la tutela dei loro interessi, dei loro diritti e della loro sicurezza“, pena un risarcimento del danno “non superiore ai compensi percepiti nell’ultimo anno“: questa in buona sostanza è una supercazzola;
- divieto del cottimo e diritto a un compenso minimo orario non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali, con previsione di un’indennità non inferiore al 10% del compenso per il lavoro notturno, festivo o in condizioni di lavoro sfavorevoli: bene (nella prima versione del decreto il cottimo era stato mantenuto) ma non benissimo dal momento che il cottimo appena uscito dalla porta rientrerà dalla finestra se previsto dalla contrattazione collettiva; considerando che questa norma entrerà in vigore fra un anno, c’è tutto il tempo per firmare accordi al ribasso;
- divieto di esclusione della piattaforma (o di riduzione delle occasioni di lavoro) per la mancata accettazione della consegna: questa è formalmente una buona notizia, il problema sarà dimostrare che la riduzione delle occasioni di lavoro è stata proprio determinata dalla mancata accettazione di consegne, e non da qualsiasi altra ragione ascrivibile all’imperscrutabile “algoritmo”;
- obbligo di copertura assicurativa contro gli infortuni in capo al committente, che dovrà farsi carico anche degli adempimenti in materia di sicurezza: e qui siamo d’accordo, peraltro era già così nella gran parte dei contratti.
In generale, però, l’introduzione di quest’altra disciplina per i rider “autonomi” ha l’effetto (e lo scopo) di creare ulteriori suddivisioni, particolarmente arbitrarie in questo caso, all’interno della classe lavoratrice, con conseguente prevedibile effetto dumping. Oggi, infatti, abbiamo lavoratori di serie A (i dipendenti), di serie B (i collaboratori continuativi etero-organizzati) e perfino di serie C (i collaboratori “autonomi”): a ciascun gruppo si applicano tutele diverse, ma si sa che gli ultimi sono quelli che “tirano giù” tutti gli altri. Esattamente il contrario di quello che servirebbe.