Che la Lega non abbia vinto le elezioni in Emilia Romagna è una buona notizia. Che le abbia vinte il PD, però, non mi sembra proprio qualcosa da festeggiare.
La recentissima sentenza della Corte di Cassazione che conclude la vicenda dei rider di Foodora, di cui avevo scritto sia dopo la sentenza di primo grado (persa) che dopo quella di appello (vinta), mi offre la possibilità di spiegare per l’ennesima volta per quale ragione i lavoratori debbano considerare il PD un nemico non meno pericoloso di Salvini.
La vicenda processuale, in estrema sintesi, è questa. Un gruppo di rider aveva chiesto che venisse loro riconosciuto lo status di lavoratori subordinati, dipendenti a tutti gli effetti, a dispetto dei contratti di “collaborazione coordinata e continuativa” che avevano stipulato con Foodora; in subordine, i rider avevano chiesto che venisse loro comunque applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato, come previsto dal Jobs Act per quei lavoratori (pur sempre non subordinati) le cui attività sono “organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro“. Il Tribunale di Torino aveva negato loro qualsiasi tutela. La Corte d’Appello torinese, invece, aveva dato ragione ai rider almeno parzialmente: aveva negato che potessero essere considerati lavoratori subordinati a tutti gli effetti – con la conseguenza di riconoscere al gestore della piattaforma la facoltà di liberarsene senza motivo e senza indennizzo alla scadenza del contratto; ma aveva quantomeno riconosciuto, per il periodo in cui avevano lavorato, che dovessero ricevere tutti i trattamenti previsti per i lavoratori dipendenti.
La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello. I lavoratori avevano scelto di non insistere nella domanda di riconoscimento della subordinazione piena (e dunque della tutela anche in caso di licenziamento illegittimo), per cui la Corte non si è occupata di questo aspetto. Fin qui, tutto bene.
Mi ha colpito però un passaggio della sentenza di Cassazione, in cui i giudici esaminano la disciplina del Jobs Act, confrontandola con la normativa precedente sui contratti a progetto, che è stata abrogata. Il passaggio è questo:
è venuta meno, perciò, una normativa che, avendo previsto dei vincoli e delle sanzioni, comportava delle garanzie per il lavoratore, mentre è stata ripristinata una tipologia contrattuale più ampia che, come tale, comporta il rischio di abusi.
La Cassazione qui sta dicendo che si stava meglio quando si stava peggio, ossia con i contratti a progetto di “legge Biagi” memoria: questo perché prima, se non altro, in tutti i casi in cui il “progetto” non fosse indicato nel contratto, o non fosse genuino, scattava il diritto all’assunzione. Con il Jobs Act, invece, questo meccanismo non esiste più ed espone i lavoratori a ogni genere di abusi da parte dei datori di lavoro, le cui conseguenze sono sempre incerte e mai prevedibili. Aggiungo che la conseguenza della violazione, con il Jobs Act, non è più l’assunzione, ma soltanto qualche spicciolo di differenze retributive, senza alcun diritto al posto di lavoro.
Il “decreto crisi“, pubblicato nel frattempo lo scorso autunno, non ha affatto modificato questa situazione, limitandosi sostanzialmente a un’operazione di maquillage. Come ho scritto qualche mese fa:
“Molto negativo invece è che nulla si dica della tutela di questi lavoratori in caso di licenziamento illegittimo. Su questo punto bisogna ricordare che lo “stato dell’arte” è ancora oggi quello della Corte d’Appello di Torino, secondo cui i rider non hanno alcun tipo di tutela nel caso in cui il committente decida di interrompere il rapporto di lavoro: neppure si tratterebbe di un vero e proprio licenziamento.
La questione non è di poco conto. Se posso scegliere di mandare via chi voglio, quando voglio, senza alcun rischio, certamente manderò via quelli che producono meno, o si lamentano chiedendo i propri diritti, e mi terrò soltanto quelli che non alzano mai la testa.
Così stando le cose, e fermo restando che è compito degli avvocati dei lavoratori promuovere un’interpretazione più estensiva della norma, il dato di fatto è che oggi le tutele per i collaboratori continuativi – compresi i rider – rimangono considerevolmente minori perfino rispetto a quelle previste dalla vecchia “Biagi”. Con i vecchi contratti a progetto, infatti, tutte le collaborazioni coordinate e continuative in cui non fosse ravvisabile uno specifico e delimitato progetto erano destinate a trasformarsi in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con tutte le tutele annesse e connesse comprese quelle dell’Articolo 18.“
Il partito che ha vinto in Emilia Romagna, oltre a essere quello delle privatizzazioni selvagge (anche della sanità) e degli accordi con i tagliagole libici sulla pelle dei migranti, è anche il partito che ha voluto e tuttora difende tutte le peggiori controriforme del diritto del lavoro, dalla precarizzazione feroce all’abolizione dell’articolo 18.
Abbasso Salvini, ma abbasso anche il PD. Serve – ed è sempre più urgente – un partito che rappresenti gli interessi dei lavoratori e degli oppressi in genere.