Solo ieri mi sono imbattuto in un’interessante analisi statistica dell’Inps sulle certificazioni di malattia pervenute all’istituto nelle dieci settimane tra il 2 febbraio e l’11 aprile di quest’anno, confrontate con quelle dello stesso periodo del 2019.
L’analisi differenzia settore pubblico e privato, uomini e donne, singole regioni, settimana per settimana. Nel complesso, nel periodo dall’ultima settimana di febbraio fino al termine di marzo i certificati di malattia aumentano fino a raddoppiare rispetto all’anno precedente nelle settimane centrali di marzo. Tuttavia questo aumento non è affatto omogeneo: la differenza principaleè tra lavoro privato e pubblico impiego. Nel privato, l’incremento rispetto al 2019 è di oltre il 50% già nell’ultima settimana di febbraio e tocca il 134% nella seconda di marzo, per poi calare nelle settimane successive; le differenze tra uomini e donne in questo settore sono relativamente modeste.
Nel pubblico c’è un incremento più modesto dei certificati nelle prime tre settimane di pandemia (con un picco del 47% in più nella seconda settimana di marzo), mentre già dall’ultima settimana di marzo i certificati sono meno dell’anno scorso. Qui però è marcata la differenza tra uomini e donne, con queste ultime molto più malate, rispetto all’anno scorso, rispetto ai colleghi. Nelle sue conclusioni, l’INPS ipotizza perciò che “le assenze per malattia da parte delle donne del settore pubblico, in alcuni casi non sono riconducibili ad eventi morbosi, ma piuttosto a necessità di assenza dal lavoro per motivi famigliari.“
È un’ipotesi del tutto ragionevole. D’altra parte, con le scuole chiuse e l’impossibilità di ovviare in qualche altro modo alla cura dei figli, con la sola alternativa di un congedo pagato al 30% (solo in un secondo momento al 50%), non è difficile comprenderlo. Questo la dice anche lunga sulla parità di genere in Italia.
Per quanto riguarda l’aumento enorme dei certificati nel settore privato rispetto al pubblico, invece, l’INPS non ci prova neppure a fornirla, ma la spiegazione è piuttosto ovvia: le assenze per malattia delle lavoratrici e dei lavoratori del settore privato tra la fine di febbraio e la fine di marzo, in molti casi, non sono riconducibili ad eventi morbosi, ma piuttosto alla necessità di non perdere qualsiasi fonte di reddito nelle settimane in cui, prima che venisse regolamentata la cassa integrazione per Covid-19, l’alternativa era nel migliore dei casi stare a casa in “ferie forzate”, nel peggiore stare a casa e basta, senza stipendio.
Intravedo già gli indici puntati di liberali moralisti che accusano: “Non si fa, è una truffa ai danni dello Stato!” A costoro rispondo innanzitutto che rimanere all’improvviso senza alcuna fonte di reddito è sicuramente fonte di uno stress considerevole, che in molti casi è davvero una malattia.
Ma soprattutto, se di “truffa” si tratta, è semmai la truffa legalizzata dei datori di lavoro (parliamo in special modo delle medie e grandi imprese) che hanno fin da subito scaricato rischi e costi della pandemia direttamente sui lavoratori, e indirettamente – e poi direttamente, quando è iniziata la Cassa Integrazione – sulle casse dello Stato (che peraltro sono in larga misura riempite ancora dai lavoratori).
Questa faccenda della malattia utilizzata (verosimilmente e del tutto comprensibilmente) per ovviare all’assenza di reddito, ma anche di strumenti efficaci e accessibili per la cura familiare, è forse una questione tutto sommato secondaria, ma mi pare significativa dell’arretratezza delle condizioni in cui versano i lavoratori in Italia.
Fortunatamente il Comitato degli esperti in materia economica e sociale ha elaborato e sottoposto in questi giorni al governo il “Piano Colao“. Giustamente, la prima delle sei aree di azione in cui questo piano è articolato riguarda “le Imprese e il Lavoro, motore dell’economia”: forse avrei preferito che si invertissero i due termini, ma non sottilizziamo sui dettagli. Nelle sei pagine dedicate a questo punto si parla di aumento delle retribuzioni, rafforzamento delle tutele, miglioramento e gratuità dei servizi? Stranamente, no. Nel primo paragrafo, intitolato “Occupazione e ripartenza delle imprese”, si propone invece, nell’ordine, di:
- escludere il “contagio Covid-19” dalla responsabilità penale del datore di lavoro (almeno per le imprese non sanitarie)
- scontare dalle tasse (cioè scaricare sulla collettività, cioè sui lavoratori) il costo per interventi organizzativi legati all’adozione dei protocolli di sicurezza e al recupero della produzione (ad esempio defiscalizzando il lavoro straordinario)
- generalizzare lo smart working (su questo bisognerà approfondire in un’altra occasione, ma intanto segnalo l’ottimo articolo di Claudio Bellotti che evidenzia i rischi di questa modalità di lavoro)
- consentire il rinnovo dei contratti a termine in deroga alle pur blande misure del “Decreto Dignità”, ossia in sostanza liberalizzando di nuovo quel pochissimo che era stato sottoposto a vincoli (obbligo di causale in caso di rinnovo o oltre un anno, limite massimo di due anni)
Per il resto, soldi a pioggia alle imprese e la sempreverde proposta di “ridurre significativamente l’economia sommersa”, favorendo in primo luogo l’emersione del lavoro nero. Peccato che il lavoro nero prosperi proprio grazie al fatto che i salari sono miseri e le tutele scarse, problemi che invece non vengono minimamente toccati. Ci si affida insomma al buon cuore dei padroni.
Va detto, per onestà intellettuale, che un paragrafo della relazione è dedicato al “promuovere la parità di genere”: bene! Il tutto però è a costo zero: si parla di “incoraggiare” la condivisione del carico di lavoro non retribuito e “ridurre il divario retributivo di genere”, ma senza precisare come; anche la proposta di “un piano nazionale per lo sviluppo di nidi pubblici e privati”, condivisibile (almeno per quanto riguarda quelli pubblici), rimane però astratta se non si specifica se siano gratuiti o a pagamento.
Come al solito, dunque, nessuno pensa ai lavoratori. Bisogna proprio che a pensarci siano loro stessi.