Con la sentenza n. 150 depositata il 16 luglio, la Corte Costituzionale ha assestato il secondo colpo di piccone sul sistema delle tutele crescenti in caso di licenziamento illegittimo, previsto dal (giustamente) vituperato Jobs Act del 2015.
Di che cosa parliamo? La riforma simbolo del governo Renzi prevedeva che al lavoratore licenziato ingiustamente spettasse, salvo rare eccezioni (poi leggermente estese dalla giurisprudenza), non la reintegrazione ma soltanto un risarcimento di tipo economico, per giunta determinato in modo automatico in base all’anzianità di servizio del lavoratore: nelle imprese con più di 15 dipendenti, 2 mesi di stipendio per ogni anno di servizio (con un minimo di 4 e un massimo di 24) nei casi in cui fosse accertata l’insussistenza del motivo addotto, e 1 mese di stipendio per ogni anno di servizio (con un minimo di 2 e un massimo di 12) in caso di violazione “soltanto” formale (ad esempio la violazione del diritto di difesa del lavoratore in caso di licenziamento disciplinare).
Il “decreto Dignità” nell’estate 2018 aveva aumentato gli importi per i casi di insussistenza del motivo – 3 mesi di stipendio per ogni anno di servizio, con un minimo di 6 e un massimo di 36 – senza però toccare il meccanismo automatico delle tutele crescenti.
Ci ha pensato la Consulta pochi mesi dopo con la sentenza n. 194/2018 , dichiarando incostituzionale il meccanismo di determinazione automatica del risarcimento del danno connesso alla sola anzianità di servizio (è questa la definizione “lunga” delle “tutele crescenti”) nei casi di licenziamenti illegittimi per insussistenza delle motivazioni addotte (giustificato motivo oggettivo o soggettivo, giusta causa).
Con la pronuncia della scorsa settimana, la Corte Costituzionale fa un altro passo in direzione del completo smantellamento della riforma renziana, dichiarando contrario ai principi di eguaglianza e di ragionevolezza anche la norma relativa ai licenziamenti illegittimi per ragioni solamente formali.
La Consulta in particolare ha ritenuto che il criterio dell’anzianità di servizio, da solo, “non presenta neppure una ragionevole correlazione con il disvalore del licenziamento affetto da vizi formali e procedurali“: in altre parole, ha stabilito che le tutele crescenti servono a ridurre il risarcimento del danno sotto una soglia minima che possa valere da deterrente.
D’ora in poi, dunque, anche in queste ipotesi il giudice non sarà più obbligato a commisurare il risarcimento del danno unicamente in base all’anzianità di servizio, ma potrà applicare ulteriori criteri per aumentarne l’importo, pur mantenendosi, in caso di illegittimità di natura formale, nella forbice fra 2 e 12 mesi di retribuzione.
A questo punto, dell’impianto originario del Jobs Act rimane in piedi soltanto la norma in materia di licenziamenti collettivi, ma anche questa ha i giorni contati: è già stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale, che dovrebbe esprimersi nei prossimi mesi.
Sono buone notizie per quei lavoratori che, licenziati ingiustamente, vedranno perlomeno aumentato il risarcimento del danno anche nell’ipotesi di un licenziamento giudicato illegittimo soltanto sotto l’aspetto formale.
Tutto è bene quel che finisce bene dunque? Non proprio. La Corte Costituzionale ha effettivamente scardinato il meccanismo che consentiva ai datori di lavoro di calcolare in anticipo quanto sarebbe costato loro mandare via un dipendente sgradito senza che ci fossero motivi (legalmente) validi per farlo. Lo sottolinea la sentenza più recente, quando afferma che “l’esigenza […] di prevedibilità dei costi di un atto, che l’ordinamento qualifica pur sempre come illecito, non può sacrificare in maniera sproporzionata l’apprezzamento delle particolarità del caso concreto“. In sostanza, si legge, se un atto è illecito (il licenziamento illegittimo), la finalità di renderne il costo prevedibile non merita una tutela particolare.
Quel che la Corte Costituzionale non ha intaccato (tecnicamente non poteva neppure farlo, almeno in questa pronuncia) è l’assenza di un vero deterrente che una sanzione pur sempre soltanto economica, per quanto aumentata nell’importo, non può garantire. L’unica tutela che può assicurare questa funzione, e allo stesso tempo costituire un ristoro integrale del danno subito dal lavoratore licenziato ingiustamente, è la facoltà in capo allo stesso lavoratore di ottenere indietro il suo posto di lavoro.
Sotto questo aspetto, la riforma di Renzi non ha cambiato sostanzialmente nulla rispetto alla “legge Fornero”, che per prima aveva smantellato l’articolo 18 dello Statuto rendendo la reintegrazione una “tutela residuale”, accessibile soltanto in una minoranza di casi. La differenza tra la riforma del 2012 e quella del 2015 era già esigua prima, è praticamente inesistente ora che anche sotto il profilo dell’entità dei risarcimenti le due norme si sono nella pratica uniformate.
Senza il diritto alla reintegrazione, non appena finirà il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (attualmente previsto fino al 17 agosto, salvo proroghe), assisteremo a una catastrofe sociale: non possiamo certo attendere che sia la Corte Costituzionale a evitarla! Servirà invece una nuova stagione di lotte.