Tra le opere minori di Giovanni Boccaccio, quella che trovo più affascinante, ma senz’altro non la migliore, è L’amorosa visione, un lungo poema-acrostico composto da oltre mille terzine divise in cinquanta canti. Mettendo in fila ogni prima lettera di ciascuna terzina, si ottengono tre sonetti.
Per citare il giudizio di Giampaolo Dossena nel suo fondamentale volume Dizionario dei giochi con le parole (ed. Vallardi 1994), che cita il poema alla voce “acrostico”: “Fa un po’ senso, come le gare a chi mangia più uova sode, come certe prodezze postribolari“.
Che c’entra Boccaccio con Tenet? Mi è venuto in mente in questi giorni, quando in attesa di rivederlo, dopo il primo giro all’Arcadia di Melzo di ormai un mesetto fa, mi è capitato di ripensare all’ultimo film di Christopher Nolan. All’acrostico del poeta toscano, il regista inglese ha sostituito un palindromo, ma sempre di giochi con le parole si tratta – e io li ho sempre amati molto, tanto da ospitare qui anni fa un ciclo di lezioni di enigmistica curato dall’amico Rebus.
La mia aspettativa era altissima. Come funziona un film palindromo? Me lo chiedevo fin da quando avevo visto il primo trailer, prima ancora del lockdown. E, a proposito, l’aspettativa era altissima anche perché Tenet sarebbe stato il primo film che avrei visto al cinema dopo la pandemia.
Come funziona, dunque? Intanto, funziona. Ed è già un risultato notevole. Seguono spoiler – lo scrivo per chi ancora non si fida ad andare al cinema e non si è dato pena di cercare soluzioni alternative.
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L’idea di Nolan per rendere l’effetto “palindromo” è un meccanismo narrativo brillante: un macchinario proveniente dal futuro fa sì che chi lo attraversa si muova in senso opposto al normale scorrere del tempo. Di questi portali ce ne sono diversi, sparsi in luoghi più o meno suggestivi, e sia i buoni che i cattivi li attraversano in momenti diversi: perciò è la storia stessa che, dal momento che un personaggio attraversa uno di questi “tornelli”, scorre contemporaneamente in due sensi – quello “ordinario” in avanti e quello “inverso” del personaggio, che torna indietro lungo il suo stesso percorso narrativo.
A spiazzare non è tanto il meccanismo in sé, che in fondo non è neppure tanto complicato, quanto l’effetto che fa nel vederlo sullo schermo. E non parlo tanto della spettacolarità – pure, Tenet è uno dei film più spettacolari che abbia mai visto, anche senza inversione temporale: è proprio la sensazione straniante che si prova nel vedere nella stessa scena due flussi temporali che si incrociano ma coesistono in modo perfettamente coerente. Questo io credo che non si fosse mai visto prima, ed è uno spettacolo straordinario. La sequenza finale, l’attacco “a tenaglia temporale”, me la sogno ancora di notte.
La rappresentazione sullo schermo di un concetto astratto come il tempo è la vera e propria “cifra” di Christopher Nolan: da Memento, dove l’incrocio temporale era “esterno”, frutto del solo montaggio, a Inception, in cui invece il tempo concentrico era proprio della storia; da Interstellar con il suo tempo reso davvero relativo dalla gravità, a Dunkirk in cui invece questo stesso effetto di relatività era nuovamente reso col montaggio. In Tenet, Nolan ha di nuovo incrociato il flusso del tempo ma non con un “trucco” di montaggio come in Memento, bensì rendendolo il vero protagonista della storia, come in Inception e Interstellar. Al cospetto di questo, i suoi virtuosismi precedenti impallidiscono.
Eppure non è tutto oro quel che luccica.
È vero che il cinema è essenzialmente “immagini in movimento”, e non si può davvero pensare a nulla di più straordinario che assistere a questo spettacolare movimento incrociato. Ma il cinema è anche un mezzo con cui raccontare delle storie: il contenuto è almeno altrettanto importante del contenitore, la sostanza non conta meno della forma.
In fin dei conti, se prendiamo in considerazione la sua trama, Tenet non è che uno 007 semplificato. C’è il protagonista, l’agente segreto buono, con il suo aiutante. Deve sventare il piano ordito dal russo cattivo (il burino con i rubli, ovviamente) che vuole distruggere il mondo grazie a una super-tecnologia proveniente dal futuro. Incontra sulla sua strada la bella di turno tenuta in ostaggio dal cattivo (era donna d’annodare, avrà pensato), che lo aiuta nella sua missione. Al dunque, le sorti della vicenda sono decise in una battaglia campale in cui volano proiettili da ogni parte (al riparo ora! Pirla!, grida l’aiutante allo sventato eroe). Alla fine i buoni vincono, il cattivo muore e il mondo è salvo.
Al dunque, viene un po’ da chiedersi se valesse davvero la pena farsi tutto questo sbattimento di incroci, tornelli e palindromi per raccontare una storia così banale. Il dettaglio kitsch dei nomi presi di peso (“così, de bbotto, senza senso“) dal quadrato magico – il russo Sator, la sua società Rotas, la sequenza all’Opera, il misterioso falsario Arepo – non fa che rendere più intensa questa sensazione di spreco. Nolan non è nuovo a questo tipo di operazioni: anche Inception era un film meraviglioso che non raccontava nulla di minimamente interessante.
A ciascuno decidere se è sufficiente a farne un capolavoro, o se in fondo è solo l’ennesima, straordinaria prodezza postribolare.