I rider tornano a fare notizia.
È delle scorse settimane la firma di un “contratto collettivo nazionale di lavoro” tra l’associazione che riunisce le imprese del settore, Assodelivery, e il sindacato Ugl, piombata come un fulmine a ciel sereno nel bel mezzo della trattativa – iniziata quasi un anno fa ed entrata nel vivo la scorsa estate – tra la stessa associazione padronale, i sindacati confederali, alcune associazioni “di base” dei rider e il Ministero del lavoro.
Per comprendere meglio la polemica che ne è sfociata è necessario fare un passo indietro. Lo scorso autunno il governo aveva emanato, nel cosiddetto “decreto crisi”, una serie di norme, per la verità di non semplicissima interpretazione, dedicate ai rider. In particolare, nell’impianto del Jobs Act veniva inserita una sezione dedicata alla “tutela del lavoro tramite piattaforme digitali” da applicarsi teoricamente ai (soli) lavoratori autonomi, dunque con esclusione di quelli “parasubordinati” (per usare una definizione sintetica e abbastanza comprensibile, benché giuridicamente poco precisa), il cui unico aspetto davvero positivo era il divieto del cottimo e il diritto a un compenso minimo orario non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali (per i lavoratori dipendenti).
La norma, che sarebbe entrata in vigore non subito bensì dopo un anno, lasciava però aperta la possibilità di “definire criteri di determinazione del compenso complessivo che tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell’organizzazione del committente” da parte di “contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale“. All’epoca avevo commentato così:
bene (nella prima versione del decreto il cottimo era stato mantenuto) ma non benissimo dal momento che il cottimo appena uscito dalla porta rientrerà dalla finestra se previsto dalla contrattazione collettiva; considerando che questa norma entrerà in vigore fra un anno, c’è tutto il tempo per firmare accordi al ribasso
Ed è precisamente quello che è successo. Mentre prendeva tempo al tavolo ministeriale con i sindacati confederali, che peraltro per non sbagliare si erano dichiarati disponibili “a cogliere specificità e le necessarie flessibilità per questo settore“, in gran segreto l’associazione padronale preparava un “CCNL” a misura dei propri interessi. Aveva fretta di stipularlo per evitare che, trascorso un anno dalla pubblicazione del decreto, diventasse obbligatorio applicare il trattamento più vantaggioso per i lavoratori previsto dalla legge. Occorreva solo un sindacato disposto a firmare l’accordo: si è presentata Ugl, organizzazione che non aveva in quel momento probabilmente neppure un rider iscritto ma che è pur sempre un sindacato a diffusione nazionale.
Che cosa prevede questo “CCNL”?
Innanzitutto, taglia fuori radicalmente i rider dalla possibilità di godere dei diritti dei lavoratori subordinati – possibilità prevista dal Jobs Act dopo la sua ultima modifica per le collaborazioni continuative autonome ma “le cui modalità di esecuzione sono previste dal committente” e sancita anche dalla Cassazione nel famoso “caso Foodora” di cui ho scritto qui. Questa tutela infatti è esclusa dalla stessa norma per le “collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche
riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore“. Ed ecco che l’art. 2 del CCNL Assodelivery/Ugl invoca proprio “le particolari esigenze produttive ed organizzative del settore del Food Delivery” per derogare in peggio a quelle tutele. Quali esigenze? Quelle di massimizzare i profitti di quei particolari padroni, naturalmente.
Il contratto collettivo, dunque, sancisce una volta per tutte che i rider ai cui rapporti di lavoro si applicherà sono lavoratori autonomi in tutto e per tutto, sempre e comunque. Infatti la Piattaforma committente può “licenziarli” (chiaramente non è giuridicamente un vero “licenziamento”, non essendo dipendenti) senza alcuna ragione e dunque a proprio piacimento, rispettando solo un preavviso di 30 giorni.
Se la legge aveva escluso il cottimo in quanto strumento supremo di sfruttamento, il CCNL ne fa invece la propria pietra angolare. Siccome però si vergognano di scrivere la parola “cottimo” nero su bianco, usano una perifrasi: “Le Parti concordano che al Rider sia riconosciuto un compenso minimo per una o più consegne, determinato sulla base del tempo stimato per l’effettuazione delle stesse. Tale compenso è equivalente a euro 10,00 (dieci/00) lordi l’ora. Nel caso in cui il tempo stimato dalla Piattaforma per le consegne risultasse inferiore ad un’ora l’importo dovuto verrà riparametrato proporzionalmente ai minuti stimati per le consegne effettuate.” Dunque c’è un compenso minimo orario, ma se in un’ora fai una sola consegna ti verrà pagato solo il tempo (stimato) di quella consegna.
Ferie, malattia, maternità, tutele che la legge prevede anche per i collaboratori autonomi, purché continuativi ed etero-organizzati (come sono per l’appunto i rider) sono cancellate.
In compenso, bontà loro, le Piattaforme “contestano e condannano qualsiasi forma, individuale e/o associativa, che produca situazioni di irregolarità così come di caporalato“. Questo impegno suona particolarmente beffardo, considerato che una delle imprese che aderisce ad Assodelivery è Uber Eats Italy, marchio di quella Uber Italy s.r.l. che è stata commissariata lo scorso maggio proprio per una vicenda di caporalato (più precisamente, delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: qui potete leggere un ampio estratto del decreto con cui il Tribunale di Milano ha disposto l’amministrazione giudiziaria.
Dalle indagini è emerso che Uber si avvaleva per il reclutamento e la gestione dei rider due società le quali “in estrema sintesi, [avevano] pagato i riders a cottimo e con una somma pari a 3 euro netti per consegna (a prescindere dalle ore di connessione, dai Km percorsi, dalle condizioni meteo e dall’orario/giorno festivo), somma di gran lunga inferiore a quella pagata dal committente UBER; detratto dai 3 euro riconosciuti per consegna ulteriori importi a titolo di penale per mancate accettazioni di consegne superiori al 95% o per cancellazioni di consegne superiori al 5%; omesso di dichiarare e versare la quasi totalità delle ritenute operate nei confronti dei riders; indebitamente trattenuto le somme corrisposte dai riders a titolo di cauzione per il materiale consegnato“. Lungi dall’essere ignara di quanto accadeva, è risultato che Uber (in particolare Uber Portier B.V., holding olandese della casa madre americana, “la quale si è ampiamente avvalsa di figure professionali dipendenti di Uber Italy s.r.l.“, “ha agevolato l’attività imprenditoriale dei soggetti indagati, in alcuni casi contribuendo a realizzare i presupposti dello sfruttamento lavorativo“.
Un “sistema per disperati”, come è stato definito da un dipendente Uber in una conversazione intercettata nell’ambito dell’indagine e riportata nei giorni scorsi dai giornali: infatti a essere ingaggiati erano soprattutto migranti di origine africana, e del sudest asiatico, reclutati tra richiedenti asilo e dimoranti in centri di accoglienza, “pertanto in condizioni di estrema vulnerabilità e isolamento sociale”.
Si tratta di un caso estremo, certamente, anche se a occhio e croce non troppo isolato. Ma con il CCNL firmato con Ugl le imprese del Delivery puntano a estenderlo in modo generalizzato, sia pure in forma meno appariscente. Già Deliveroo nelle scorse settimane ha inviato a tutti i suoi rider una lettera in cui li pone davanti al fatto compiuto, avvisandoli che entro fine mese riceveranno il nuovo contratto con le tariffe e le condizioni peggiorate: “Se non firmerai il nuovo contratto di collaborazione entro il 2 novembre, a partire dal giorno 3 novembre non potrai più consegnare con Deliveroo“.
I sindacati confederali e perfino il Ministero del lavoro hanno reagito alla firma di questo “contratto truffa” denunciandone l’illegittimità, tra le altre cose per il fatto che Ugl difficilmente può essere considerata “organizzazione sindacale comparativamente più rappresentativa a livello sindacale”. Al momento, però, non siamo andati oltre lettere più o meno infuocate e “minacce” di azioni giudiziarie.
Certamente anche secondo me c’è uno spazio per agire in giudizio, e in un certo modo la vicenda di Uber contiene quantomeno degli spunti. Ma certamente occorre ben altro per scardinare il meccanismo di sfruttamento su cui si basano i profitti delle imprese del Delivery.
Ai giudici stabilire se il CCNL sia legittimo e se il comportamento di Deliveroo, Uber e soci configuri un’estorsione o meno. Ai lavoratori organizzarsi per resistere e combattere questo sistema di super-sfruttamento.
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