I diritti dei rider sono sempre di più un campo di battaglia sul quale si muovono eserciti disparati: più che uno scontro di scacchi, una partita a Diplomacy in cui le alleanze sono volubili e non sempre affidabili.
Dopo il contratto collettivo truffaldino stipulato in settembre dalle aziende del settore delivery con un sindacato creato ad hoc per aggirare il divieto di cottimo previsto dalla legge (legge che a sua volta sembrava scritta apposta per consentire un simile aggiramento), anche altri attori hanno fatto le loro mosse. A ottobre c’è stata la protesta dei rider in tutta Italia, a novembre sono scesi in campo governo, sindacati e magistratura.
Il protocollo del 2 novembre
Il 2 novembre i sindacati confederali del settore Trasporto hanno firmato con le principali associazioni datoriali un protocollo che dovrebbe regolamentare l’attività dei rider “autonomi”, ossia di quelli che non sono formalmente o sostanzialmente dipendenti o quantomeno “etero-organizzati” dalle rispettive aziende. L’accordo prevede in pratica l’estensione a tutti i rider della disciplina del CCNL per i dipendenti del settore Trasporto, ai quali vengono di fatto equiparati anche sotto l’aspetto della retribuzione, allineata a quella dei lavoratori con mansioni e inquadramento modesti.
Che valore ha questo protocollo? Nelle intenzioni dei firmatari, dovrebbe applicarsi “a qualsivoglia operatore commerciale e/o piattaforma digitale e/o committente che utilizzi lavoratori di cui sopra“, e questo perché “le parti convengono che il CCNL Logistica, Trasporto Merci, Spedizioni [è] stipulato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale“. Bisogna vedere però se saranno d’accordo quegli altri – UGL e Assodelivery – che a loro volta si sono autoproclamati organizzazioni comparativamente più rappresentative, rivendicando che il CCNL “giusto” sia quello che hanno stipulato loro.
La questione è controversa perché la legge sul punto è davvero ambigua.
La circolare del 19 novembre
Per chiarirla è sceso in campo il Ministero del lavoro con la circolare n. 17 del 19 novembre, documento dal dubbio valore precettivo ma comunque interessante, frutto essenzialmente della coda di paglia del governo.
Innanzitutto fa il riassunto della normativa in vigore, con l’assurda distinzione fra rider a tutti gli effetti dipendenti, etero-organizzati (ai quali si applicano le stesse tutele dei dipendenti anche se non è chiaro, neppure dopo la sentenza Foodora, se tutte o solo alcune) e autonomi che hanno tutele inferiori. Per giunta le tutele dei rider che non sono dipendenti possono essere derogate da contratti collettivi nazionali.
La circolare chiarisce intanto che la distinazione tra rider etero-organizzati (“quasi dipendenti”) e autonomi risiede nella continuità della prestazione: autonomi sono solo quelli che svolgono questa attività in modo occasionale e non continuativo.
Quindi afferma che i CCNL che pure possono derogare le norme previste dalla legge non possono comunque farlo indiscriminatamente ma devono rispettare le tutele minime, tra cui in particolare il divieto di cottimo. È un’interpretazione radicalmente opposta, e migliore per i lavoratori, rispetto a quella di Assodelivery e UGL, che invece nel loro CCNL farlocco hanno previsto precisamente il cottimo, sia pure mascherato dietro una complessa perifrasi.
In effetti tutta la circolare ministeriale è uno strumento per attaccare la legittimità di quell’accordo, che sarebbe in ogni caso inidoneo a derogare le tutele previste dalla legge in quanto non sottoscritto da una pluralità di “agenti sindacali” bensì da una sola sigla, per giunta priva della necessaria maggiore rappresentatività. Perciò state attenti, operatori del settore – conclude il Ministero: se in base a questo contratto collettivo applicate tutele o compensi inferiori a quelli previsti dalla legge, i lavoratori possono farvi causa!
La sentenza del 24 novembre
Un ulteriore buon motivo per fare causa è la sentenza del Tribunale di Palermo del 24 novembre scorso. In una causa promossa contro Glovo da un rider che si era visto “disconnettere” dalla piattaforma in seguito a una serie di rivendicazioni (per la fornitura di dispositivi di protezione individuale, etc.), stabilisce alcuni principi di grande importanza:
- le piattaforme digitali sono a tutti gli effetti delle imprese di trasporto e distribuzione e non dei semplici intermediari;
- in considerazione dell’evoluzione tecnologica e dell’organizzazione produttiva, è necessario oggi adottare un’interpretazione altrettanto evoluta del concetto di subordinazione, adattandolo a forme di lavoro diverse da quella tradizionale ma indubbiamente di carattere subordinato, in cui l’elemento essenziale è quello della mancanza di effettiva autonomia del lavoratore;
- nel caso dei rider, “la libertà di scegliere se e quando lavorare, su cui si fonda la natura autonoma della prestazione, non è reale, ma solo apparente e fittizia, poiché, a tutto concedere, il lavoratore può scegliere di prenotarsi per i turni che la piattaforma (e quindi il datore di lavoro che ne è titolare o ne ha il controllo) mette a sua disposizione in ragione del suo punteggio […] con la conseguenza che, in verità, non è lui che sceglie quando lavorare o meno, poiché le consegne vengono assegnate dalla piattaforma tramite l’algoritmo, sulla scorta di criteri del tutto estranei alle preferenze e allo stesso generale interesse del lavoratore“;
- la facoltà dell’imprenditore, attraverso l’algoritmo, di disconnettere temporaneamente o definitivamente il rider dalla piattaforma è un vero e proprio potere disciplinare;
- dunque, al di là della sua qualificazione formale come lavoratore autonomo, il rider deve essere considerato a tutti gli effetti un lavoratore subordinato, con tutte le tutele di legge compresa, senza alcun dubbio, quella contro il licenziamento (disconnessione) ingiustificato, e con il diritto a percepire la stessa retribuzione dei lavoratori dipendenti del settore.
Nel caso esaminato dal Tribunale di Palermo, il rider che aveva fatto causa ha ottenuto la reintegrazione nel posto di lavoro oltre a un cospicuo risarcimento del danno e oltre a ben 13.000,00 Euro per differenze retributive maturate nel corso di circa un anno e mezzo (tanto per avere l’idea di quanto guadagnino le imprese dal super-sfruttamento dei lavoratori).
Anche se siamo soltanto al primo grado di giudizio e sicuramente seguiranno appello e cassazione, la sentenza è straordinariamente importante non solo perché apre la strada a una maggior tutela per i lavoratori delle piattaforme, ma perché i principi che stabilisce – in particolare rispetto all’interpretazione “aggiornata” del concetto di subordinazione – sono potenzialmente applicabili a tutti i “nuovi” lavoratori che l’evoluzione tecnologica fa apparire autonomi, ma che sono in realtà altrettanto vincolati al loro datore di lavoro quanto gli operai in catena di montaggio.
Il Tribunale di Palermo insomma ci mostra un futuro possibile, alternativo e migliore per i lavoratori rispetto a quello di Lapsis che hanno pensato per noi Confindustria e soci. Lo otterremo però, non a suon di sentenze (e tantomeno di circolari ministeriali), ma soltanto con l’organizzazione e la lotta di classe.