La vicenda dei rider si arricchisce di un nuovo capitolo, un vero e proprio colpo di scena.
Come un fulmine a ciel sereno, la scorsa settimana la Procura della Repubblica di Milano, all’esito di indagini durate circa un anno, ha annunciato l’emanazione nei confronti di quattro multinazionali del settore delivery (Deliveroo, Glovo-Foodinho, Just Eat, Uber Eats) della prescrizione di “assumere” tutti i rider che lavorano per loro, accompagnata da ammende per oltre 700 milioni di Euro.
Ma che è successo? Lo spiega il comunicato stampa della Procura della Repubblica di Milano.
A quanto si legge, indagini che hanno preso il via da alcuni incidenti stradali di cui erano rimasti vittime alcuni ciclofattorini e si sono poi estesi all’intero territorio nazionale e alle posizioni di circa 60.000 lavoratori hanno condotto ad accertare che l’inquadramento contrattuale dei rider da parte delle maggiori imprese del settore (“la stragrande maggioranza è impiegata in virtù di contratti di lavoro autonomo di tipo occasionale”) non corrisponde all’effettiva natura di questi rapporti di lavoro e perciò configura uno o più reati, in particolare sotto il profilo dell’elusione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro.
In presenza di questo tipo di reati, la legge (il d.lgs. 758/1994 che regolamenta la disciplina sanzionatoria in materia di lavoro) prevede che “allo scopo di eliminare la contravvenzione accertata, l’organo di vigilanza impartisce al contravventore un’apposita prescrizione, fissando per la regolarizzazione un termine” che in questo caso è di 90 giorni. Se la prescrizione viene eseguita, al contravventore è consentito di estinguere il reato, evitando così il processo e qualsiasi ulteriore conseguenza sanzionatoria, pagando una somma pari a un quarto al massimo dell’ammenda prevista per i reati commessi.
È una sorta di “patteggiamento” anticipato (mi perdoneranno i miei amici penalisti per l’estrema semplificazione) ma legato necessariamente al preventivo ripristino della legalità. In generale, si tratta di una normativa che favorisce le imprese: IlSole24Ore infatti la definisce “una porta antipanico per evitare conseguenze peggiori penali. Un lavacro possibile e senz’altro percorribile e conveniente sia per le persone giuridiche sia per quelle fisiche eventualmente colte in fallo”. Sta poi alle imprese scegliere se accettare questa scorciatoia oppure affrontare il processo penale confidando che in quella sede emerga la loro innocenza.
In che cosa consistono qui le prescrizioni? Nell’obbligo di provvedere ad adempiere a tutti gli obblighi in materia di sicurezza del lavoro applicabili alla categoria dei rider entro 90 giorni. In caso di adempimento, le società saranno quindi ammesse all’estinzione del reato a fronte di ammende quantificate complessivamente in oltre 733 milioni di Euro.
Le indagini sono state condotte di concerto con i servizi ispettivi dell’Ispettorato del lavoro, dell’Inps e dell’Inail, che a loro volta hanno intimato alle società di “riqualificare” la posizione lavorativa dei rider applicando non più contratti di collaborazione occasionale, bensì contratti di collaborazione coordinata e continuativa che escludano in particolare il regime del cottimo.
Dunque, non contratti di lavoro subordinato, non vere e proprie “assunzioni” ma co.co.co. Il riferimento infatti è alla normativa prevista dal c.d. decreto rider del primo governo Conte.
E qui sta l’inghippo.
È vero che quella riforma prevedeva per tutti i collaboratori coordinati e continuativi (dunque non solo per i rider) la cui attività sia anche organizzata dal committente le stesse tutele previste per i lavoratori subordinati. Ed è vero che per i rider in particolare la normativa prevedeva il divieto del cottimo. Ci sono però due grossi “ma”.
Il primo riguarda l’estensione effettiva di queste tutele, che non è chiaro (e non è stato ancora chiarito) se ricomprendano anche quelle previste per il licenziamento illegittimo.
Il secondo è che la stessa legge prevedeva per i datori di lavoro una scappatoia, consistente nella stipula di contratti collettivi che avrebbero potuto derogare alle previsioni del decreto, reintroducendo ad esempio il cottimo in qualche forma ed escludendo in generale la parificazione delle tutele con quelle dei lavoratori dipendenti.
È precisamente questa scappatoia che le aziende del settore hanno sfruttato quando lo scorso settembre hanno firmato con UGL un contratto collettivo truffaldino che, a fronte di poche tutele di facciata, stabilisce esplicitamente che i rider sono a tutti gli effetti lavoratori autonomi e reintroduce il principio del compenso parametrato sulle consegne effettuate.
È tuttora aperto lo scontro sulla validità o meno di questo contratto collettivo (secondo me e molti giuslavoristi è in realtà nullo), che nel frattempo però gran parte delle aziende del settore (tranne Just Eat, che ha annunciato che nei prossimi mesi assumerà i propri rider come lavoratori subordinati) stanno applicando.
C’è da scommettere che sarà questa la “riqualificazione” a cui faranno ricorso le imprese del delivery liberandosi così delle prescrizioni della Procura. In barba alle parole del procuratore Francesco Greco, secondo cui “la conclusione a cui siamo arrivati è che si tratta di un rapporto di lavoro subordinato […] Non c’è più un capo reparto come una volta. I rider vengono guidati, sorvegliati, valutati attraverso l’intelligenza artificiale, da un programma informatico”.
Considerazioni che fanno il paio con quelle dal Tribunale di Palermo nella sentenza dello scorso 24 novembre, che ha tra l’altro accertato che “la libertà di scegliere se e quando lavorare, su cui si fonda la natura autonoma della prestazione, non è reale, ma solo apparente e fittizia, poiché, a tutto concedere, il lavoratore può scegliere di prenotarsi per i turni che la piattaforma (e quindi il datore di lavoro che ne è titolare o ne ha il controllo) mette a sua disposizione in ragione del suo punteggio […] con la conseguenza che, in verità, non è lui che sceglie quando lavorare o meno, poiché le consegne vengono assegnate dalla piattaforma tramite l’algoritmo, sulla scorta di criteri del tutto estranei alle preferenze e allo stesso generale interesse del lavoratore”.
Considerazioni che però, in questo caso, rischiano di restare senza effetto concreto perché la legge di cui la Procura e l’Ispettorato del lavoro pretendono l’applicazione, da sola, è in realtà un’arma spuntata. Certo, rimarranno da pagare le ammende (sempre che le aziende non decidano di andare a processo) ed è già qualcosa, ma di sicuro non abbastanza.
La vicenda è tutt’altro che conclusa, ma già possiamo trarre alcune conclusioni.
La più importante è che quel che si è ottenuto finora sul fronte dei diritti dei rider, che è comunque più di qualcosa, è stato ottenuto soprattutto grazie alle lotte coraggiose di questi lavoratori ultra-ricattati, che hanno avuto la capacità di organizzarsi e l’intelligenza per farlo in modo efficace, conquistandosi una ribalta anche mediatica che ha obbligato i principali sindacati a occuparsi della questione e il governo a intervenire, anche se entrambi in modo confuso e insufficiente. Anche grazie a questa pressione sono arrivate sentenze favorevoli dei giudici del lavoro, e altre ne potranno arrivare.
Allo stesso tempo, anche quest’ultimo provvedimento dimostra che non si può delegare a leggi e tribunali la lotta per i diritti, ma occorre invece approfondire ed estendere continuamente l’azione, senza mai abbassare la guardia ma usando decreti e sentenze come appigli per arrampicarsi un po’ più in su.
Sono insegnamenti preziosi, che devono essere appresi e messi in pratica da tutti i lavoratori.