Salvo nuove proroghe, a giugno terminerà per le imprese di grandi dimensioni il blocco dei licenziamenti economici.
Giusto in tempo, con la sentenza n. 59/2021 pubblicata all’inizio di aprile, la Corte Costituzionale è intervenuta a precisare “le regole del gioco”, eliminando – meglio tardi che mai! – una delle più assurde storture dell’articolo 18 nella versione sfigurata dalla riforma Fornero.
Innanzitutto, un breve ripasso.
Prima che ci mettesse mano Elsa “Lacrime di coccodrillo” Fornero (mi scuseranno i coccodrilli), l’articolo 18 prevedeva, per i lavoratori licenziati da imprese con oltre 15 dipendenti, una regola semplice, chiarissima e coerente: se un licenziamento veniva dichiarato illegittimo, veniva annullato e il lavoratore perciò aveva diritto al riavere il suo posto di lavoro. Non importava né quale fosse il motivo del licenziamento, né quale fosse la ragione della sua illegittimità.
Con la riforma del 2012 questa regola cristallina è stata spezzata in una mezza dozzina di ipotesi, a ciascuna delle quali corrisponde una tutela diversa. In buona sostanza, la reintegrazione è prevista certamente soltanto nei casi di licenziamento di cui si accerti la natura discriminatoria (ipotesi decisamente infrequente) oppure di licenziamento disciplinare in cui venga accertato che il fatto addebitato al lavoratore non sussista, (o sia sanzionato dal contratto collettivo applicabile con multa o sospensione). Per quanto riguarda i licenziamenti “economici”, ossia per giustificato motivo oggettivo (GMO), anche quando siano dichiarati illegittimi è previsto in generale soltanto un risarcimento economico, compreso fra 12 e 24 mesi di stipendio. La legge consente al giudice di ordinare la reintegrazione soltanto quando la ragione “oggettiva” indicata dal datore di lavoro sia risultata manifestamente insussistente.
Quand’è che il motivo oggettivo posto dal datore di lavoro alla base del licenziamento si considera insussistente? Quando l’imprenditore non riesce a dimostrare:
- che esistono in concreto le ragioni riguardanti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro che ha indicato (ragioni che, secondo la giurisprudenza più recente ma attualmente in voga, possono anche soltanto consistere nell’obiettivo di aumentare i profitti!);
- che esiste un rapporto di causa-effetto tra queste ragioni e il licenziamento di quel lavoratore;
- che fosse davvero impossibile salvare il posto di lavoro del dipendente ricollocandolo in altra mansione equivalente (o al limite inferiore).
Quando invece è manifestamente insussistente? Quando almeno uno di questi presupposti non solo non è dimostrato, ma risulta addirittura pretestuoso. Come è facile intuire, sta alla sensibilità di ciascun giudice stabilire di volta in volta il confine – che è sostanzialmente arbitrario – tra insussistenza “normale” e manifesta. Parmenide si rivolta nella tomba!
Ma non finisce qui. Secondo la formulazione della norma di legge, anche quando ritiene il motivo indicato dal datore di lavoro manifestamente insussistente, il giudice “può” ordinare la reintegrazione. Non “deve”.
E su che basi decide? Per un certo periodo, gran parte dei giudici semplicemente ha fatto finta che l’alternativa non esistesse, come se fosse sempre dovuta in questi casi la reintegrazione. Qualche anno fa, però, la Cassazione ha stabilito che non si potesse far finta di nulla, indicando un criterio per scegliere: anche nei casi di manifesta insussistenza, dunque, la reintegrazione è stata esclusa quando il giudice la riteneva “eccessivamente onerosa” per il datore di lavoro.
L’assurdità di questa soluzione è lampante, ma la “colpa” era della legge. Per questo un giudice del Tribunale di Ravenna ha chiesto l’intervento della Corte Costituzionale, l’unica che potesse modificarla.
E la Corte Costituzionale è intervenuta nell’unico modo non solo giuridicamente logico, ma anche sensato: ha dichiarato illegittima la norma che prevedeva la possibilità della reintegrazione in ipotesi di manifesta insussistenza del motivo oggettivo, disponendo che la reintegrazione sia in questo caso sempre obbligatoria.
Nella motivazione ha evidenziato soprattutto l’iniquità e l’irragionevolezza di un criterio che attribuiva la scelta tra reintegrazione e risarcimento – tutele tutt’altro che equivalenti! – a un fattore “privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento. Il mutamento della struttura organizzativa dell’impresa che preclude l’applicazione della tutela reintegratoria è riconducibile allo stesso imprenditore che ha intimato il licenziamento illegittimo e può dunque prestarsi a condotte elusive.” Questo, sul presupposto pur sempre valido “che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio.“
Dunque un pezzettino di giustizia è fatto, e potrà rivelarsi utile in alcuni casi.
In concreto, infatti, negli ultimi anni la “manifesta insussistenza” è stata accertata, se non frequentemente, quantomeno con una certa regolarità, non solo in ipotesi eclatanti (come l’assunzione di nuovo personale con le stesse mansioni subito dopo un licenziamento motivato da esigenze di esubero), ma anche in casi più “sfumati” come quello di un licenziamento per cessazione di appalto senza che fosse preventivamente verificata la possibilità di ricollocare altrove il lavoratore. In tutte queste ipotesi, la reintegrazione è ora l’unica opzione possibile.
Non possiamo illuderci però che una sentenza della Corte Costituzionale possa farci da ombrello nella tempesta che si sta avvicinando.
Il padronato ormai da oltre un anno morde il freno, si sfoga con licenziamenti disciplinari più o meno fantasiosi – come quello intimato da ArcelorMittal al dipendente reo di averla paragonata all’acciaieria malvagia di una fiction con Sabrina Ferilli – ma non attende altro che si “aprano le gabbie” per scatenare un macello sociale.
Per quanto le regole possano essere interpretate in senso favorevole ai lavoratori (e più spesso che no avviene il contrario!), è il gioco stesso che è fatto apposta per favorire le imprese. L’unica difesa davvero efficace contro gli attacchi che non tarderanno ad arrivare consiste nell’organizzarsi per rovesciare il tavolo.