Se la manifestazione avrà successo, invece della fine di una lotta importante potrà essere l’inizio di un’intera stagione di lotte.
Non ci sono dubbi. La manifestazione di sabato a Firenze è stata un successo clamoroso. Non solo per la partecipazione (poco importa che fossimo 15, 20 o 40mila) ma soprattutto per l’aria che abbiamo respirato: aria fresca, rinvigorente, non quella di certi cortei rituali e men che meno quella di un funerale.
I padroni vogliono chiudere la fabbrica, ma i lavoratori vogliono riprendersi tutto e sono riusciti a convincere almeno, per il momento, la parte più avanzata della classe che la loro lotta è la lotta di tutti.
Lunedì, intanto, il Tribunale di Firenze ha fatto la sua parte accogliendo il ricorso promosso dalla FIOM contro GKN per comportamento antisindacale e obbligando l’azienda a ricominciare da capo la procedura di licenziamento collettivo, proprio sul filo di lana: questa settimana infatti sarebbero partite le lettere di licenziamento.
Non è importante decidere se il giudice ha deciso in questo modo grazie al successo della manifestazione – personalmente credo proprio di no, anche se è plausibile che abbia comunque voluto attendere sabato per pubblicarlo – ma è utile leggere il decreto (il testo completo è qui), che contiene spunti di riflessione molto interessanti.
La condotta del datore di lavoro è antisindacale, secondo il giudice, sotto due aspetti.
Da un lato, l’azienda ha violato le norme previste dal contratto collettivo nazionale e rese ancora più stringenti da un accordo aziendale di appena un anno prima (luglio 2020), con cui l’imprenditore, escluso – ai tempi – l’utilizzo di “licenziamenti coercitivi” (peraltro vietati fino al 30 giugno 2021) si era impegnato “al confronto con la RSU in caso di mutamento del corrente contesto e condizioni di mercato“. Congiuntamente con la disciplina del CCNL, questo impegno vincolava il datore di lavoro di comunicare non solo l’avvenuta decisione di licenziare (e a maggior ragione di chiudere lo stabilimento), ma anche, preventivamente, l’intenzione di valutare una possibile chiusura. Al contrario, GKN ha omesso ogni comunicazione circa l’esistenza di valutazioni in questo senso, e questo nonostante il fatto che la RSU avesse chiesto espressamente informazioni a questo riguardo. La società si è limitata a mettere il sindacato di fronte al fatto compiuto, quando ha inviato le lettere di apertura della procedura di licenziamento collettivo presentando la chiusura dello stabilimento come una decisione ormai presa e incontrovertibile.
Dall’altro lato, il datore di lavoro si è comportato in modo scorretto concordando con i sindacati – ai quali non aveva ancora comunicato nulla – la fruizione di un giorno di permesso collettivo motivandola con un pretesto (la riduzione di un ordine da parte di un cliente). La chiusura di un giorno era prevista per il 9 luglio, ma l’8 luglio è stata presa la decisione di chiudere lo stabilimento in via immediata e definitiva:
appare significativa la chiusura di 24 ore per “par collettivo”, concordata con motivazione rivelatasi successivamente pretestuosa e artatamente programmata per il giorno successivo a quello fissato per decidere la cessazione di attività, in modo da poter comunicare la suddetta cessazione ai lavoratori e al Sindacato con lo stabilimento già chiuso.
Qui vale la pena osservare che soltanto l’organizzazione, l’intelligenza e la prontezza dei lavoratori hanno impedito che il piano dell’azienda andasse del tutto a buon fine. I lavoratori hanno occupato lo stabilimento immediatamente, il giorno stesso della chiusura, e così hanno scongiurato la possibilità che i cancelli venissero chiusi definitivamente e che i macchinari potessero essere trasferiti altrove, come era nelle intenzioni della proprietà.
Il comportamento dell’azienda è ritenuto dal giudice contrario a buona fede e lesivo delle prerogative del sindacato, essendo finalizzato a impedirgli qualsiasi reazione: dunque si tratta di un comportamento sindacale, punito dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori.
Il Tribunale perciò condanna la società a rimuovere gli effetti di questo comportamento, revocando la procedura di licenziamento collettivo e rinnovando l’informativa ai sindacati che era stata illegittimamente omessa. E qui finiscono i poteri del giudice e le buone notizie.
Il resto non sono tanto cattive notizie, quanto piuttosto l’ennesima dimostrazione che non si può delegare ai tribunali la lotta di classe, e che non ci si può neppure fidare granché delle burocrazie sindacali.
Intanto, prendiamo atto che secondo il giudice non è antisindacale la scelta del datore di lavoro di non utilizzare gli ammortizzatori sociali in alternativa alla chiusura. Il riferimento qui è al famigerato “avviso comune” dello scorso 29 giugno, con cui Confindustria si impegnava a raccomandare ai propri associati di utilizzare la cassa integrazione, prima di partire con i licenziamenti. Ricordate? Il sindacato aveva spacciato questo accordo per una vittoria, mentre era palese che si trattasse di una presa in giro (ne avevo scritto qui). Il Tribunale conferma che una raccomandazione è solo una raccomandazione e non un obbligo, e conferma che dunque i padroni possono tranquillamente sciacquarsene le palle – cosa di cui nessuno peraltro dubitava davvero anche se è stato giusto provarci.
Inoltre – ed è il vero punto di tutta la faccenda – il giudice non ritiene necessario ordinare all’azienda di riammettere in servizio i lavoratori neppure in conseguenza di un comportamento antisindacale. Riconosce anzi esplicitamente il diritto del padrone di chiudere lo stabilimento, limitandosi a garantire (e non è poco, intendiamoci) il diritto dei lavoratori alla retribuzione fino a quando i licenziamenti non verranno intimati nuovamente, in modo formalmente corretto.
Per questa ragione sono fuori luogo certi toni trionfalistici letti in questi giorni: sono soprattutto gli organi di informazione vicini al sindacato – gli stessi che spargevano illusioni sull’avviso comune del 29 giugno! – a presentare il decreto del Tribunale di Firenze come un punto di arrivo, suggerendo che ora la partita si debba spostare ai tavoli ministeriali.
I lavoratori della GKN – e credo anche la maggior parte dei lavoratori in generale – sanno che invece quello che hanno ottenuto nelle aule del tribunale è né più né meno che un po’ di tempo. Circa tre mesi, quelli che occorrono per ricominciare da capo e portare a termine la procedura di licenziamento collettivo.
Sta a loro, e sta a noi, decidere come impiegare questo tempo, sapendo che in questo sistema non esiste alcuna autorità o istituzione che possa impedire a un padrone di chiudere l’azienda e licenziare tutti i dipendenti, sia pure dopo tutte le informative e le consultazioni sindacali del caso. L’unica forza in grado di contendere questo potere è quella della classe lavoratrice organizzata: l’abbiamo vista risvegliarsi – e risvegliarci – sabato a Firenze, servirà che raggiunga e coinvolga tutti gli sfruttati di questo paese per vincere la battaglia.
Non basta insorgere una volta, serve un’insurrezione permanente. Uno sciopero generale.