31 dicembre, giorno di bilanci. Il 2021 è stato un anno intenso, pieno di cose e ricco di contraddizioni: ne trovo traccia nei post dedicati al mondo che mi interessa come professionista e come militante.
È stato l’anno dei diritti dei rider. Iniziato con l’indagine della Procura di Milano e la condanna delle piattaforme a regolarizzare i contratti dei ciclofattorini, proseguito con il provvedimento del Garante della Privacy che condannava Foodinho, tra l’altro, per l’utilizzo arbitrario e imperscrutabile dell’algoritmo Jarvis; il tutto mentre in diversi tribunali, da Bologna a Palermo, veniva dichiarato illegittimo il contratto collettivo farlocco tra Assodelivery e UGL. Contratto sconfessato da Just Eat che ad aprile ha cominciato ad assumere i propri rider inquadrandoli come dipendenti e applicando un contratto collettivo stipulato con i sindacati confederali. E infine, a novembre, anche la Commissione Europea ha preso posizione in favore di un aumento delle tutele dei ciclofattorini.
Si tratta di un processo tutt’altro che scontato, che è maturato anche – e soprattutto – grazie alle mobilitazioni dei rider in tutta Europa, che hanno conquistato la simpatia di milioni di persone e “costretto” le istituzioni ad affrontare la questione e porre un argine allo sfruttamento.
Ed è un processo in controtendenza rispetto a (quasi) tutto quel che lo circonda. A luglio è cessato il blocco dei licenziamenti per circa metà dei lavoratori italiani, e i licenziamenti sono iniziati per davvero.
La vicenda più eclatante è stata quella di GKN a Firenze. Ecco un altro caso in cui la lotta dei lavoratori, peraltro iniziata anni prima per ottenere migliori condizioni di lavoro in fabbrica, e culminata nel meraviglioso corteo del 18 settembre, ha creato il contesto più favorevole, prima per l’annullamento della procedura di licenziamento collettivo da parte del tribunale, e poi – notizia recente – per la cessione dell’azienda e il salvataggio di tutti i posti di lavoro.
Purtroppo non hanno avuto la stessa sorte altre vicende analoghe, che non sono riuscite a “bucare” il muro dell’indifferenza e sono terminate con sentenze sfavorevoli, chiusure e licenziamenti: come la storia della Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto, in Brianza, dove in assenza di una lotta capace di uscire dal perimetro della fabbrica hanno finito per perdere il posto più di 150 lavoratori.
Naturalmente è sbagliato trarre conclusioni automatiche: ci sono lotte coraggiose che finiscono con una sconfitta e ci sono sentenze importanti anche in assenza di lotte. Quella che registro però è una linea di tendenza piuttosto netta.
La battaglia contro lo sfruttamento passa sempre meno dai tribunali, una via oltretutto resa sempre più impervia a livello di sistema con un progressivo rallentamento dei processi. Nel mio piccolo, osservo che di tutte le cause che ho iniziato nel 2021, la maggior parte a Milano che ancora poco tempo fa era considerato un tribunale “veloce”, nessuna è ancora terminata con una sentenza. Poco più della metà si sono concluse con un accordo – spesso per il lavoratore è un modo per velocizzare i tempi di pagamento, rinunziando a una parte di ciò che gli sarebbe spettato vincendo la causa – mentre le altre, specialmente quelle più incerte, hanno subito rinvii su rinvii.
Ci sono poi temi su cui i tribunali possono fare ben poco, e sono le politiche del governo in materia di lavoro: politiche finalizzate a favorire la precarietà, a perpetuare e approfondire la distanza tra ricchi e poveri, a scaricare sui lavoratori i rischi della pandemia.
La variante omicron ha dimostrato che il vaccino – fondamentale per contenere il contagio e le sue conseguenze – non è però sufficiente a tutelare noi stessi e chi ci sta vicino dai pericoli: abbiamo visto file interminabili fuori dalle farmacie per eseguire tamponi e l’introduzione dell’obbligo di indossare mascherine FFP2 (immediatamente esaurite o disponibili solo a prezzo raddoppiato) su tutti i mezzi di trasporto.
Solo nei luoghi di lavoro – in cui è stato oltretutto fortemente ridotto lo smart working, specie nel pubblico impiego per disposizione del ministro Brunetta – “bastano” ancora le mascherine chirurgiche. L’impennata dei contagi, anche tra vaccinati sia pure con conseguenze mediamente molto meno gravi, dimostra ulteriormente quello che l’associazione nazionale dei medici aziendali aveva scritto fin da settembre: la possibilità di contagiare e di contagiarsi sussiste indipendentemente dalla condizione vaccinale e/o dal possesso del green pass. Il certificato verde non rappresenta una misura di sicurezza per il Datore di Lavoro, a meno che non derivi dal reiterato controllo ogni 48h tramite tampone.
Ma i tamponi non solo non sono gratuiti, sono ormai difficilissimi da fare in un sistema che è prossimo al collasso, e in cui già da tempo la sanità territoriale ha dovuto gettare la spugna per insufficienza di risorse.
Solo con lotte diffuse e determinate questo stato di cose potrà essere cambiato. Lo sciopero generale del 16 dicembre è stato un primo passo necessario in questa direzione, e ha dimostrato la capacità della Cgil, con tutti i suoi difetti, di mobilitare ancora con pochissimo preavviso e pressoché nulla preparazione una parte ancora importante della classe lavoratrice di questo paese. Una battaglia dovrà essere combattuta, e vinta, anche dentro il sindacato per trasformarlo da inefficiente agente di contrattazione in uno strumento di lotta per i lavoratori, all’altezza delle necessità.
In tutto il mondo, e non solo in Italia, la pandemia sta continuamente accelerando le contraddizioni del sistema, mobilitando settori sempre più ampi soprattutto tra i giovani: li abbiamo visti nelle strade e nelle piazze in autunno, a denunciare i veri responsabili dell’inazione contro i cambiamenti climatici. Non c’è alcun motivo di pensare che queste contraddizioni, e i movimenti che portano con sé, non si approfondiranno nell’anno che viene: rimbocchiamoci le maniche per un 2022 di lotte e di speranze!