Una ricerca pubblicata lo scorso autunno dalla Fondazione Openpolis e basata su dati OCSE rivela che l’Italia è l’unico paese dell’Unione Europea in cui la media dei salari (al netto dell’inflazione) negli ultimi 30 anni è diminuita.
I dati sono sconfortanti. Senza scomodare i paesi che negli anni Ottanta facevano parte del Patto di Varsavia, si registrano aumenti superiori al 30% in Germania e in Francia mentre in Spagna, seconda peggiore in questa classifica, sono comunque cresciuti del 6,2%. Da noi invece i salari sono calati mediamente del 2,9%.
Marta e Simone Fana qualche anno fa avevano analizzato questo fenomeno in un libro che consiglio di leggere, Basta salari da fame!, individuando soprattutto nella flessibilità (leggi “precarietà”), nei part time involontari, e in generale nella “giungla del mercato del lavoro” ossia nelle mille forme contrattuali di sfruttamento, le cause del progressivo impoverimento dei lavoratori.
La questione è di sempre più tragica attualità, con l’inflazione mai così alta nell’ultimo quarto di secolo e destinata ad aumentare, al contrario degli stipendi fermi al palo.
Il problema dei salari troppo bassi riguarda effettivamente e ovviamente precari e part time involontari, ma coinvolge ormai sempre più spesso anche lavoratori subordinati con contratti a tempo indeterminato e a tempo pieno e con retribuzioni regolate da contratti collettivi nazionali di lavoro.
Un caso particolarmente eclatante è costituito dai lavoratori del settore del portierato e della vigilanza a cui viene applicato il CCNL Vigilanza privata – Servizi fiduciari. Questo contratto collettivo, firmato a suo tempo da tutti i sindacati confederali compresa la CGIL, prevede retribuzioni così basse che addirittura la magistratura in più occasioni le ha dichiarate illegittime, per violazione dell’art. 36 della Costituzione.
L’art. 36 della Costituzione è quello secondo cui
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Normalmente questa disposizione viene utilizzata per affermare il diritto dei lavoratori (dipendenti) a percepire una retribuzione non inferiore a quella prevista dai CCNL firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi – cosa che capita spesso ad esempio nel caso delle cooperative, oppure quando il datore di lavoro applichi contratti collettivi “di comodo” (i cosiddetti “contratti pirata”). In questi casi si presuppone che la retribuzione concordata dalle parti sociali più rappresentative (in ciascun settore) valga a fissare il “minimo costituzionale”.
Non è semplice invece per un lavoratore dimostrare che anche la retribuzione prevista da un contratto collettivo firmato da CGIL, CISL e UIL possa non essere, in concreto, “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa“.
Negli ultimi anni, però, un certo numero di sentenze in alcuni Tribunali e Corti d’Appello del Nord Italia (in particolare Torino, Milano, Bologna) hanno accertato che la retribuzione prevista dal CCNL Servizi fiduciari per gli operai di inquadramento medio-basso, benché concordata da parti sociali effettivamente rappresentative (ossia da tutti i sindacati confederali compresa la CGIL), sia effettivamente così modesta da non potersi ritenere né proporzionata né sufficiente.
Tra le ultime in ordine di tempo c’è una pronuncia del Tribunale di Milano che ho ottenuto poche settimane fa in favore di due lavoratori, addetti ai servizi di portierato alle dipendenze di una multinazionale appaltatrice di un ente pubblico.
La retribuzione di questi lavoratori per 40 ore di lavoro settimanali (tempo pieno) era inferiore ai mille Euro lordi. Al netto di tasse e contributi, escludendo assegni familiari e altri istituti di carattere assistenziale (come i 100€ mensili di “trattamento integrativo” – quelli che fino a un paio d’anni fa erano gli “80€ di Renzi”), e ovviamente senza contare eventuali straordinari, nelle tasche dei dipendenti entravano sistematicamente meno di 900€ al mese, e spesso meno della somma che l’ISTAT ha stabilito quale soglia di povertà.
Il giudice ha ritenuto che un simile stipendio, da un lato, non fosse proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto, essendo inferiore di oltre un quarto alla (pur misera) retribuzione prevista per le stesse mansioni da altri contratti collettivi normalmente applicati nel settore – fun fact: secondo l’azienda, la differenza di circa 250€ al mese era “solo” di 250€ al mese! Naturalmente, dipende tutto dal punto di vista…
Dall’altro, che in generale una retribuzione prossima se non inferiore alla soglia di povertà non potesse ritenersi sufficiente ad assicurare al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa. In particolare, è stata confutata la tesi (per la verità assurda, ma in qualche modo suggerita da alcune sentenze precedenti) del datore di lavoro che per valutare la sufficienza della retribuzione fosse necessario verificare le ulteriori condizioni economiche del lavoratore (es. altri redditi familiari, mutui o affitti da pagare, etc.): secondo il giudice, “tali elementi non devono entrare nel giudizio, in caso contrario verrebbero utilizzati dei parametri che sono del tutto estranei al rapporto di lavoro e non indicati nella norma costituzionale“.
In conclusione, il giudice ha dichiarato illegittimo il CCNL Servizi fiduciari nella parte in cui prevede retribuzioni tanto miserabili, e ha dichiarato il diritto dei lavoratori a percepire poco meno di 300€ in più al mese (con tutti gli arretrati dall’assunzione). Continua a essere poco, ma è almeno qualcosa in più, ed è comunque tutto quel che si può ottenere in Tribunale.
Nota a margine: un’impresa che ha decine di migliaia di dipendenti, e su ciascuno “risparmia” (in questo caso illegittimamente, ma questo non sposta di molto la questione) 300€ al mese senza contare i maggiori costi fiscali e contributivi, ha un profitto mensile di… fate voi il calcolo.
D’altra parte è proprio su questo margine di profitto che si regge tutto il sistema degli appalti, pubblici e non solo. Ecco perché una delle rivendicazioni fondamentali, oggi, per la classe lavoratrice, è l’abolizione di questo sistema.
Come sempre, le battaglie decisive nella guerra di classe si combattono altrove, nei luoghi di lavoro e nelle piazze, non certo nei palazzi di giustizia.
È sempre più indispensabile organizzare una mobilitazione in favore di un salario minimo per tutti i lavoratori di almeno 1.400,00 Euro al mese per un dipendente a tempo pieno, e per il ripristino di un meccanismo che tenga agganciati i salari all’inflazione, come la scala mobile dei salari.
Ed è prima di tutto necessario che i lavoratori si riapproprino dei sindacati a partire dalla CGIL, rendendoli uno strumento davvero utile per riconquistare i diritti e organizzare le lotte, anziché sede della peggiore concertazione.
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