La (legge) Fornero al cimitero

Ci dev’essere qualcosa nell’aria primaverile che rende i magistrati delle Corti superiori più sensibili ai diritti dei lavoratori – o più probabilmente più intolleranti verso le mostruosità giuridiche, prima ancora che sociali, prodotte dai legislatori dell’ultimo decennio.

Ancora una volta, al centro della discussione c’è l’articolo 18, nella versione modificata dalla riforma Fornero del luglio 2012: quella che aveva sostituito alla tutela della reintegrazione, in molti casi di licenziamento illegittimo, una tutela solo risarcitoria.

Lo scorso anno la Corte Costituzionale aveva aperto una prima breccia nell’impianto della legge, rendendo obbligatoria la reintegrazione, contro una prassi che la prevedeva solo come facoltativa, in tutti i casi di licenziamento fondato su un giustificato motivo oggettivo di cui fosse stata accertata la manifesta insussistenza.

Era una decisione importante, ma di utilità tutto sommato limitata, perché rimaneva pur sempre necessario che il motivo indicato alla base del licenziamento non solo risultasse inesistente, ma fosse considerato manifestamente infondato. In caso di inesistenza non manifesta, infatti, continuava a essere previsto soltanto un risarcimento economico.

Scrivevo un anno fa a questo proposito:

Come è facile intuire, sta alla sensibilità di ciascun giudice stabilire di volta in volta il confine – che è sostanzialmente arbitrario – tra insussistenza “normale” e manifesta. Parmenide si rivolta nella tomba!

Parmenide è il filosofo greco che affermò che “L’essere è, e non può non essere“, mentre “il non-essere non è, e non può essere“. Elsa Fornero probabilmente era assente quando lo spiegavano a scuola, dal momento che aveva introdotto questa misteriosa categoria del “non-essere, ma non manifestamente“, che pareva fatta apposta per rompere le uova nel paniere dei lavoratori, e dei loro avvocati.

Con la sentenza n. 125/2022, le cui motivazioni sono state pubblicate la scorsa settimana, la Corte Costituzionale ha finalmente messo fine a questa follia.

Le motivazioni sono quelle che chiunque abbia un po’ di buon senso potrebbe aspettarsi.

Il requisito del carattere manifesto, in quanto riferito all’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, è, anzitutto, indeterminato.

E questo è particolarmente grave dal momento che la differenza tra le tutele che operano in un caso o nell’altro – ossia tra reintegrazione e mero risarcimento – è di enorme rilevanza.

Inoltre

La sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi.

Un fatto, dice la Corte, o esiste o non esiste: Parmenide può riposare in pace.

Corollario di questo argomento è che

Il presupposto in esame non ha alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato, che non è più grave, solo perché l’insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio.

Insomma, un licenziamento basato su un fatto che non esiste è ugualmente sbagliato, a prescindere che questa insussistenza sia o meno manifesta.

Senza contare, infine, che la necessità di dover decidere non solo se il fatto posto alla base del licenziamento esista o non esista, ma anche se la sua inesistenza sia o meno manifesta, complica inutilmente la vita ai giudici (oltre che ai lavoratori naturalmente).

La sentenza della Corte Costituzionale è un vero e proprio colpo di spugna che cancella il principio fondamentale della riforma Fornero, ossia quello per cui la tutela “normale” in caso di licenziamento per motivi economici dichiarato illegittimo dovrebbe essere il risarcimento monetario (in una misura in qualche modo prevedibile) e non la reintegrazione.

Ebbene, da questa settimana non è più così: la reintegrazione sarà prevista nella maggior parte dei casi di illegittimità del licenziamento, mentre la tutela solo risarcitoria sarà limitata ai casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui il motivo del licenziamento viene giudicato reale, ma a essere sbagliate sono soltanto la forma oppure (dice la Corte Costituzionale, ma personalmente non sono del tutto convinto) la scelta del lavoratore da licenziare tra quelli che hanno mansioni fungibili, in caso di riduzione del personale.

Tutto è bene quel che finisce bene? Non proprio, purtroppo.

Certo, per i lavoratori che ancora sono sotto l’ombrello dell’Articolo 18 dello Statuto, i principi affermati dalla Corte Costituzionale costituiscono un significativo aumento delle tutele: di fatto, la controriforma del 2012 è in gran parte annullata.

E questo anche con l’ulteriore prezioso contributo della Corte di Cassazione che da qualche settimana ha cambiato il proprio orientamento su una particolare questione relativa ai licenziamenti disciplinari – magari ne scriverò nei prossimi giorni – allargando anche in questo caso il campo della reintegrazione a scapito di quello del risarcimento economico.

Ma queste sentenze arrivano a chiudere il cancello quando i buoi sono quasi tutti scappati. O meglio, hanno perso il lavoro.

In primo luogo ci sono tutti quei lavoratori che nel frattempo, secondo la formulazione e l’interpretazione della norma che solo ora vengono modificate, hanno perso ingiustamente il posto di lavoro, e verosimilmente hanno perso per sempre la tutela dell’Articolo 18.

Questo perché – ed è la seconda ragione – a tutti i lavoratori assunti dopo il marzo 2015 non si applica comunque più l’articolo 18, bensì il Jobs Act: per loro la reintegrazione in caso di licenziamento dichiarato illegittimo rimane una possibilità davvero remota.

Per troppi è troppo tardi, dunque. Un motivo in più per organizzarsi e lottare per riconquistare i diritti perduti.

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