Sono due gli atti che hanno movimentato la comunità dei giuslavoristi nelle scorse settimane. Uno è la modifica dell’art. 1677 bis del codice civile di cui ho scritto un paio di giorni fa, l’altro è la sentenza con cui la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla tutela prevista dal Jobs Act contro i licenziamenti illegittimi nelle “piccole” imprese.
La tutela dei lavoratori licenziati illegittimamente è il campo di battaglia fondamentale della lotta di classe a livello giuridico: lo dimostra la quantità di interventi legislativi e giudiziari intervenuti negli ultimi dieci anni, da quando la riforma Fornero distrusse l’articolo 18 dello Statuto: una riforma messa profondamente in discussione proprio dalla Corte Costituzionale pochi mesi fa, ma che nel frattempo era stata superata, nel marzo 2015, dal Jobs Act del governo Renzi.
Dell’impianto originario del Jobs Act, che prevedeva pochissimi casi di reintegrazione e, soprattutto, la commisurazione automatica dell’indennizzo all’anzianità di servizio – due mesi di stipendio per ogni anno, con un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro – è rimasto ben poco.
Il primo piccolo ritocco l’aveva fatto il Decreto Dignità nel 2018 innalzando il risarcimento nel minimo (sei mesi di stipendio) e nel massimo (trentasei), mantenendo però il meccanismo automatico delle tutele crescenti.
Meccanismo successivamente abolito dalla Corte Costituzionale pochi mesi dopo, con la prima di una serie di sentenze ben più incisive.
A finire sotto la lente della Consulta, infine, è stata la norma che riguarda il risarcimento spettante ai lavoratori licenziati illegittimamente da “piccole imprese”, ossia dai datori di lavoro con meno di 16 dipendenti nella sede a cui apparteneva il lavoratore licenziato e che non raggiungono complessivamente (ossia sommando quelli di tutte le sedi) i 60 dipendenti.
In questi casi, il risarcimento del danno è sempre e comunque ricompreso (tranne che nel caso assai poco frequente di licenziamento radicalmente “nullo” – ad esempio perché discriminatorio) fra tre e sei mesi di stipendio.
Si tratta per la verità di una tutela molto simile a quella già prevista prima del Jobs Act per tutti i dipendenti di quelle imprese a cui non si applicava l’articolo 18, proprio sulla base dei medesimi criteri “dimensionali” richiamati anche dalla riforma. Una norma che la stessa Corte Costituzionale aveva più volte dichiarato legittima, e che era stata anche oggetto di un referendum abrogativo nel 2003, fallito per il mancato raggiungimento del quorum.
Secondo il Tribunale di Roma, che ha chiesto l’intervento della Corte Costituzionale, i profili di incostituzionalità della norma riguardavano sia la modestia dell’importo, “per nulla dissuasivo”, sia lo scarso divario tra risarcimento minimo e massimo, che impedisce qualsiasi distinzione tra i diversi casi concreti, sia infine l’individuazione del numero di dipendenti quale unico criterio per distinguere le “piccole imprese”, a cui si applica la tutela ridotta, dalle altre a cui si applica il risarcimento da sei a trentasei mensilità.
La Corte ritiene fondati tutti e tre i motivi.
In primo luogo spiega che non sono più valide le motivazioni che l’avevano spinta in passato a dichiarare la legittimità della tutela ridotta: nel sistema dell’articolo 18, imperniato sulla reintegrazione del lavoratore licenziato illegittimamente, poteva essere giustificata l’esclusione di questa specifica tutela nelle imprese più piccole; ma una volta escluso il diritto alla reintegrazione anche nelle imprese con più di 15 dipendenti, non esistono più ragioni che giustifichino l’enorme differenza quantitativa fra le due tutele, entrambe meramente economiche.
In secondo luogo conferma che un divario così modesto tra minimo e massimo impedisce di adeguare efficacemente la sanzione alla specificità della singola vicenda, a maggior ragione dal momento che il principale criterio distintivo rimane quello del numero di dipendenti “che, a ben vedere, non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario“, in un contesto economico e produttivo in cui, del resto, “al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari”.
E quindi conclude, in un crescendo rossiniano: “Si deve riconoscere, pertanto, l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente e si deve affermare la necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti“.
Immaginate come ci siamo sentiti leggendo la sentenza per la prima volta, arrivati a questo punto. È come quando la vostra squadra attacca e dopo un’azione travolgente il centravanti viene steso in area. È tutto pronto per battere il calcio di rigore, parte la rincorsa…
Al vulnus riscontrato, tuttavia, non può porre rimedio questa Corte.
… niente, ha preso il palo.
Il fatto è, spiegano i giudici della Consulta, che di fronte alla riconosciuta inadeguatezza della tutela (rispetto ai principi che informano la nostra Costituzione), è astrattamente configurabile “una vasta gamma di alternative e molteplici si rivelano le soluzioni atte a superare le incongruenze censurate“. Ma il compito di scegliere tra queste alternative spetta al legislatore, non alla Corte Costituzionale.
Perciò, in conclusione, la questione è dichiarata inammissibile.
I tifosi (dei diritti dei lavoratori) devono accontentarsi del monito finale lanciato dalla Consulta al legislatore – ossia al Parlamento che sarà eletto a settembre e al governo al quale voterà la propria fiducia:
Nel dichiarare l’inammissibilità delle odierne questioni, questa Corte non può conclusivamente esimersi
dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte.
Insomma, abbiamo giocato bene, magari la prossima volta vinciamo pure.
Ora, io lascio ai costituzionalisti esaminare in punto di diritto se la sentenza sia corretta o meno.
Mi limito però a osservare che proprio il “monito” finale della Corte lascia intendere che, se avesse voluto, avrebbe potuto fin da subito dichiarare l’illegittimità della norma e “provvedere direttamente”. Evidentemente non ha voluto (e il fatto che a capo della Consulta sia Giuliano Amato forse non c’entra qualcosa).
Dubito fortemente che il prossimo Parlamento e il prossimo governo saranno più sensibili di quelli che li hanno preceduti verso i diritti dei lavoratori. Il compito di ottenere una giustizia efficace ricade allora sui lavoratori stessi e sulle loro organizzazioni: a tutti noi spetta fare il possibile, ciascuno nel proprio campo, per aiutarli a essere all’altezza della situazione.