Lo scorso 23 settembre il Tribunale di Trieste ha accertato la condotta antisindacale di Wärtsilä Italia, filiale della multinazionale finlandese che produce motori per impianti industriali. Nel mese di luglio la società aveva comunicato ai sindacati l’intenzione di chiudere uno stabilimento nei pressi di Trieste, con conseguente esubero di 451 dipendenti.
Il provvedimento non ha (né in alcun modo poteva, almeno in questa sede) messo in discussione il merito della scelta aziendale, ma ha sanzionato la società per “non aver adempiuto agli obblighi di informazione preventiva” previsti dal contratto collettivo e dagli accordi sindacali “in relazione alle dinamiche economiche e produttive suscettibili di determinare ricadute occupazionali sul sito di Bagnoli della Rosandra in Trieste, nonché con riferimento alla decisione di cessare l’attività produttiva del predetto sito e di avviare la procedura ex art. 1 comma 227 L. 234/2021“.
In buona sostanza, a essere violata è stata a monte la procedura che, nei piani della società, dovrebbe concludersi con il licenziamento collettivo.
L’azienda l’ha presa bene. Ha rinunciato a impugnare il decreto e quindi pagherà anche il risarcimento del danno nei confronti delle organizzazioni sindacali – FIM CISL, FIOM CGIL e UILM UIL – che hanno promosso il ricorso: cinquantamila Euro a ciascuna.
Ha anche cambiato l’amministratore delegato, ma non il suo progetto: infatti ha ricominciato daccapo tutta la procedura, stavolta – forse – applicando tutte le regole. Quello stabilimento deve chiudere, costi quel che costi.
E in effetti solo di costi si tratta: quelli previsti dalla normativa di contrasto alle delocalizzazioni introdotta lo scorso dicembre, che il “decreto Aiuti-ter” lo scorso agosto ha sì innalzato, ma certo non abbastanza da costituire un deterrente serio per i bilanci delle multinazionali.
Questa era anche la tesi della Regione Friuli Venezia Giulia, che è intervenuta nella causa promossa dai sindacati proprio affermando (fra l’altro) che la normativa sulle delocalizzazioni è inadeguata e sostanzialmente inefficace e chiedendo per questo che il giudice interpellasse la Corte Costituzionale per farne dichiarare l’incostituzionalità. Niente meno!
L’intervento della Regione è stato dichiarato inammissibile per ragioni tecniche procedurali. Resta l’aspetto paradossale della faccenda: la critica “di sinistra” a una normativa rivendicata dalla parte più “progressista” (si fa per dire) dello scorso governo proviene da una giunta regionale guidata da un leghista, Massimiliano Fedriga, il cui assessore al lavoro Alessia Rosolen proviene dalle organizzazioni giovanili del Movimento Sociale Italiano e poi di Alleanza Nazionale.
Non c’è dubbio che la mossa della giunta del FVG fosse pura propaganda. Ciò non toglie che davvero la normativa sulle delocalizzazioni, concepita di fatto esclusivamente come una “tassa” che le multinazionali devono pagare per andarsene e licenziare, non serva a granché – come dimostra proprio il comportamento di Wärtsilä.
La questione è in realtà molto semplice: se un’impresa decide di smettere di produrre non è per cattiveria, ma per un calcolo di convenienza economica. Non c’è modo di “convincerla” del contrario e non esistono sanzioni meramente economiche realmente dissuasive – e allo stesso tempo realisticamente esigibili – in grado di scalfire le scelte di colossi dal fatturato pari a quello di piccoli Stati.
L’unica soluzione risiede nella mobilitazione dei lavoratori che impedisca materialmente la chiusura, nell’esproprio degli impianti senza indennizzo e nella prosecuzione dell’attività sotto il controllo dei lavoratori.
Se alle parole della giunta del FVG il governo nazionale – dello stesso colore – avesse voluto far seguire dei fatti, nel suo primo decreto-legge avrebbe previsto una qualche misura contro le imprese che delocalizzano, per favorire l’esproprio degli stabilimenti.
Invece la prima misura assunta dal governo Meloni è l’introduzione della nuova fattispecie penale di “invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica“, sanzionata per gli organizzatori con la reclusione da 3 a 6 anni e la multa fino a 10.000 Euro e – ancora peggio – con applicazione della misura preventiva della sorveglianza speciale, come per i mafiosi.
Come sappiamo, il pretesto scelto dal governo è la “lotta” ai rave party, come quello che si è tenuto nei giorni scorsi a Modena. Il che non ha mancato di suscitare una certa ilarità popolare e il sarcasmo sulle “priorità” del governo.
Basta leggere il testo del provvedimento per smettere di ridere:
L’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica.
Così formulata, la norma (che il Presidente della Repubblica ha sottoscritto senza battere ciglio) si può applicare senza troppa fantasia praticamente a qualsiasi forma di protesta: il blocco di una strada (già pesantemente sanzionato dal “decreto sicurezza” del governo Conte-Salvini), un sit in in piazza, e ovviamente l’occupazione di una fabbrica.
Sbaglia quindi chi sostiene che il provvedimento non avrebbe il carattere di urgenza richiesto dalla Costituzione per i decreti-legge. L’urgenza esiste eccome, in una stagione che si preannuncia caldissima, con oltre settanta tavoli aperti al Ministero per licenziamenti collettivi e chiusure aziendali, con la povertà crescente e una situazione complessiva che pare una polveriera in attesa di una miccia.
È urgente per il padronato italiano dotarsi di misure che possano arginare e reprimere lotte e mobilitazioni che evidentemente si attende possano esplodere. E il governo paga così la sua prima cambiale al suo vero referente, Confindustria.
La repressione funziona – fino a un certo punto. Oltre quel punto, diventa un ostacolo che è necessario superare, e che è possibile superare soltanto alzando il livello dello scontro. È compito delle organizzazioni che rappresentano la classe lavoratrice – la CGIL in primis – smascherare questi dispositivi di repressione e portare la lotta per condizioni di vita e di lavoro migliori su questo piano più alto.