Ha avuto un certo risalto sui giornali la sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano ha dichiarato che la retribuzione degli addetti alla vigilanza presso l’ATM di Milano (dipendenti della società IVRI a cui ATM ha appaltato il servizio) è inferiore al minimo costituzionale, ossia non è sufficiente ad assicurare loro un’esistenza libera e dignitosa, e non è proporzionata alla quantità e alla qualità del loro lavoro.
Il datore di lavoro è stato condannato ad alzare lo stipendio, dai circa 950 Euro (lordi) a 1.218 Euro (sempre lordi) al mese. IVRI e ATM, quest’ultima come committente e responsabile in solido, dovranno inoltre pagare tutte le differenze arretrate.
Non si tratta di una questione nuova. Io stesso avevo raccontato qui lo scorso aprile di una vicenda analoga di cui mi ero occupato (la società ha impugnato la sentenza del Tribunale favorevole ai lavoratori e l’appello sarà a marzo). Sentenze di questo tipo sono ormai abbastanza numerose, almeno presso la Corte d’Appello di Milano.
Secondo quanto si legge negli articoli dedicati alla vicenda, ATM ha subito specificato alla stampa di non avere alcuna responsabilità diretta nei rapporti di lavoro, essendo “solo” committente e non datore di lavoro.
La responsabilità però, oltre che giuridica, è anche sociale ed economica ed è assolutamente palese. Non è pensabile che il committente non sappia quale contratto collettivo applica il proprio appaltatore e che retribuzioni paghi ai propri dipendenti. E mentre utilizza lavoratori sottopagati, la stessa ATM ha pensato bene di alzare del 10% il costo dei biglietti! Non c’è limite alla vergogna.
Ma la questione merita una riflessione più profonda e generale, e vale la pena almeno abbozzarla finché c’è ancora qualche riflettore puntato.
Contro la logica del profitto…
Non è difficile comprendere le ragioni del padronato nel tenere i salari a un livello miserabile: il profitto.
A maggior ragione in questo settore settore produttivo, in cui il costo principale è quello del personale: si chiamano appalti “labour intensive” perché queste imprese forniscono essenzialmente manodopera e, al più, un’organizzazione del lavoro che si svolge comunque presso il committente che mette a disposizione i locali e spesso quei pochi macchinari necessari a svolgere l’attività.
Per dare un’idea dell’enormità dei soldi in ballo posso fornire un esempio tratto dalla controversia di cui mi sono occupato ancora recentemente. L’impresa in questione, appaltatrice dei servizi di pulizia e guardiania presso il Politecnico di Milano, dichiara di avere circa 24.000 dipendenti, di cui verosimilmente la maggior parte sono operai non (o poco) specializzati.
Dopo aver perso la causa ha adeguato il salario dei lavoratori che assisto alla soglia decisa dal giudice: l’aumento mensile in busta paga, per ciascuno, è di 342 Euro. Il costo per l’azienda, considerando i maggiori contributi, sarà intorno ai 500 Euro mensili per ogni lavoratore. Cinquecento per ventimila fa dieci milioni. Di Euro. Ogni mese. Ecco di quanti soldi stiamo parlando, per una sola impresa.
…l’unica soluzione è la lotta di classe
Se i padroni fanno semplicemente il loro lavoro, altrettanto non si può dire di chi dovrebbe rappresentare gli interessi dei lavoratori.
I sindacati confederali sono responsabili innanzitutto di aver firmato il contratto collettivo che prevede salari tanto miserabili. Salvo ora tentare di smarcarsi sostenendo che gli accordi dell’epoca (dieci anni fa, quando venne sottoscritto il CCNL), prevedessero una serie di aumenti retributivi da concordarsi a stretto giro, e che sarebbe colpa del padronato se questi accordi non sono poi stati rispettati.
Anche ammesso che sia vero, la domanda sorge spontanea: che hanno fatto in questi dieci anni i sindacati – CGIL in testa – per costringere la controparte a rispettare quegli accordi e ad alzare gli stipendi?
Nulla.
Il contratto collettivo oltretutto è scaduto nel 2015. I negoziati per rinnovarlo durano da anni: il mese scorso le associazioni datoriali hanno interrotto per l’ennesima volta la trattativa dopo aver proposto un aumento di 30 Euro. All’anno.
Invece di organizzare e proclamare scioperi che, riguardando spesso appalti pubblici, potrebbero avere grande efficacia, i sindacati hanno lanciato… una petizione. Al governo Meloni.
Anche se fosse un governo più “amico”, comunque, ci sarebbe poco da aspettarsi. Del resto lo Stato e gli enti pubblici, più o meno privatizzati, sono i principali committenti dei servizi di vigilanza e pulizia e, proprio come ATM, sono parte del problema.
Gli appalti vengono assegnati con il criterio del massimo ribasso, senza che vengano assicurati trattamenti economici minimi ai lavoratori: per poter ottenere le commesse le imprese devono chiedere il minimo possibile; il minore incasso viene scaricato sui salari dei dipendenti. È un circolo vizioso da cui non si può uscire se non spezzandolo.
Le sentenze non bastano
Di certo non possono essere i tribunali a spezzarlo.
Intendiamoci: sentenze come quest’ultima della Corte d’Appello di Milano sono notizie molto positive, soprattutto perché possono servire a incoraggiare altri lavoratori a prendere coscienza del proprio sfruttamento e a lottare per condizioni di lavoro dignitose.
Al tempo stesso sono soluzioni molto parziali, per diversi motivi.
Innanzitutto, le sentenze dei tribunali valgono soltanto per i lavoratori che hanno fatto causa; non tutti però se la sentono di affrontare i rischi, i costi, i tempi e lo stress che questo comporta, oltretutto in un contesto che pone sempre più ostacoli a chi cerca di ottenere giustizia.
Va detto che anche su questa specifica questione, nonostante siano sempre numerose le pronunce favorevoli ai lavoratori, non mancano decisioni contrarie, soprattutto in primo grado di giudizio, spesso motivate con il fatto che le retribuzioni di cui si parla, per quanto misere, sono pur sempre frutto della contrattazione collettiva tra le associazioni datoriali e sindacali maggiormente rappresentative.
Inoltre sono le stesse motivazioni delle sentenze favorevoli, tutte a oggi non per caso concentrate nei tribunali e nelle corti d’appello del Nord Italia, a rendere più difficoltosa la tutela giudiziale per i lavoratori del Centro e soprattutto del Sud.
Uno dei principali criteri di valutazione dell’insufficienza della retribuzione, infatti, è individuato nella soglia di povertà assoluta annualmente definita dall’Istat. Ma la soglia di povertà varia secondo la zona di riferimento: nel 2021, ultimo dato disponibile, per un nucleo familiare composto da un’unica persona residente nella periferia di un’area metropolitana, la soglia è di 812,86 Euro al Nord, 770,33 Euro al Centro, e soltanto 613,15 Euro al Sud.
È evidente che per i lavoratori del Sud far valere le proprie ragioni è molto più difficile che per quelli del Nord. La giustizia affidata ai soli tribunali, per quanto utile, rischia di ricreare e approfondire le differenze geografiche, non diversamente dalle recenti proposte del ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara che vorrebbe reintrodurre le gabbie salariali per i docenti.
Per un salario minimo legale, la scala mobile e un servizio davvero pubblico
L’unica soluzione efficace, l’unico modo per spezzare il circolo vizioso degli appalti al ribasso e dei salari da fame, è la rilanciare la parola d’ordine del salario minimo legale, non inferiore a 1.400 Euro al mese, e il ripristino di un meccanismo automatico di rivalutazione che difenda il potere d’acquisto degli stipendi dall’inflazione – una nuova scala mobile.
Non c’è dubbio che, soprattutto nel settore dei servizi, i padroni sosterrebbero che una simile conquista li obbligherebbe a chiudere. Ecco perché l’altra rivendicazione fondamentale in questo ambito è l’abolizione del sistema degli appalti, e l’assunzione diretta dei lavoratori da parte dei committenti.
Più in generale, occorre anche rivendicare che la gestione dei servizi pubblici – trasporti, sanità, istruzione, etc. – sia completamente svincolata dalle logiche del mercato, sottratta agli interessi privati, adeguatamente finanziata dallo Stato.
Ecco un programma che riuscirebbe a unificare centinaia di vertenze e conquistare e spingere a mobilitarsi centinaia di migliaia di lavoratori. È tempo che le organizzazioni che li rappresentano, in primo luogo il sindacato, decidano di combattere questa battaglia.
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