Secondo la Procura di Milano, le consociate italiane delle due multinazionali francesi BRT (già Bartolini) e Geodis, colossi nel settore dei trasporti, sono senza dubbio “caporali”. Nel senso che sono accusate del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro – ossia di “caporalato”.
Secondo gli inquirenti, attraverso un sistema di appalti simulati, che nascondevano una mera (e vietata) fornitura di manodopera, la sola BRT avrebbe risparmiato più di 100 milioni di Euro all’anno da almeno dieci anni a questa parte, in danno dell’Erario e soprattutto dei lavoratori.
(Anche) per questa ragione lo scorso 27 marzo le due società sono state sottoposte ad amministrazione giudiziaria: per un anno, nella gestione delle loro attività saranno affiancate da amministratori nominati dal Tribunale, che agiranno a stretto contatto con l’autorità giudiziaria.
Già nei mesi scorsi erano stati sequestrati alle due società oltre cento milioni di Euro, nell’ambito di indagini che hanno portato la Procura a contestare anche reati connessi a evasione fiscale e contributiva.
Chiunque conosca un minimo il settore della logistica e delle consegne non può certo esserne sorpreso. Tutto il sistema degli appalti che caratterizza la filiera è costruito proprio per consentire ai committenti in cima alla piramide di realizzare profitti colossali risparmiando principalmente sul costo del lavoro.
Non occorre essere il direttore di BRT per sapere come funziona il meccanismo. Invece occorre proprio essere il direttore generale di BRT (nel frattempo sostituito) per intascare un milione di Euro di mazzette dalle imprese aggiudicatarie degli appalti in sei anni, come lo stesso Costantino Dalmazio Manti avrebbe ammesso.
Il che conferma che i profitti non mancano non solo per i committenti, ma anche per gli anelli intermedi della catena. Profitti che ovviamente sono realizzati sulla pelle dei lavoratori.
Anche nei casi in cui la legalità è formalmente rispettata, il guadagno è garantito, oltre che dal tasso di sfruttamento elevatissimo che caratterizza tutto il settore, dalla maggiore precarietà, dalla frammentazione dei lavoratori – che di fatto fanno tutti lo stesso lavoro per la stessa committente – in una miriade di piccole aziende in cui è molto più difficile organizzarsi anche per rivendicazioni minime.
Ma la realtà è che le condizioni di illegalità denunciate alla magistratura dai lavoratori degli appalti BRT e Geodis costituiscono la regola e non l’eccezione.
Turni e ritmi di lavoro massacranti, straordinari – ma anche interi stipendi e spettanze di fine rapporto – non pagati o pagati molto meno di quanto previsto dai contratti collettivi, l’assenza di misure di sicurezza e di formazione (tutte spese “inutili” dal punto di vista del padronato), sono il pane quotidiano dei lavoratori della logistica.
Ed è prassi consueta anche il passaggio da una cooperativa all’altra ogni paio d’anni, con perdita degli scatti di anzianità e impossibilità di rivalersi sul committente, grazie alla norma che ne limita proprio in due anni dalla cessazione dell’appalto la responsabilità.
I giudici possono intervenire soltanto nei casi di illegalità più estrema e sfacciata. È capitato in passato anche nel settore dei rider, quando venne disposta l’amministrazione giudiziaria di Uber Eats per una analoga vicenda di caporalato.
Ma a essere marcio è tutto il sistema degli appalti, che per sua stessa natura, per essere economicamente conveniente per le imprese, deve necessariamente basarsi sull’iper-sfruttamento dei lavoratori e sulla massima compressione delle loro tutele. Come sempre, la battaglia principale non può essere combattuta nelle aule di giustizia, ma nei posti di lavoro. E le uniche armi per combatterla sono la coscienza di classe e l’organizzazione dei lavoratori.
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