Pochissimi film mi hanno colpito negli ultimi anni quanto La zona d’interesse di Jonathan Glazer, da qualche settimana al cinema e vincitore dell’Oscar per il miglior film internazionale.
La storia è in apparenza di una semplicità estrema: si racconta il ménage familiare e domestico tutto sommato sereno di Rudolf Höss e di sua moglie Hedwig, alle prese con i problemi di tutti i giorni: i figli, il lavoro, la casa.
La particolarità è che la casa – una bella villetta in campagna con giardino e piscina – si trova esattamente di fianco al campo di concentramento di Auschwitz, di cui Rudolf è il comandante.
Ispirandosi liberamente all’omonimo romanzo di Martin Amis, ma anche all’autobiografia dell’ufficiale nazista, scritta durante il processo di Norimberga e poco prima della sua esecuzione, Jonathan Glazer ha scelto una strada scioccante per confrontarsi – e confrontarci – con l’orrore dell’Olocausto.
Quella di mostrarcelo attraverso gli occhi di un personaggio che, per il ruolo storico che ha avuto, sarebbe fin troppo facile definire un mostro. Ma che ci viene rappresentato come un funzionario piuttosto grigio, al limite un po’ più zelante e ambizioso della media ma in fondo “normale”: una persona che tiene alla sua famiglia non senza slanci di affetto, affezionato ai suoi animali domestici e “ragionevolmente” attaccato al suo lavoro e alla sua carriera; che affronta insieme alla moglie problemi consueti come l’educazione dei figli, un trasferimento lontano da casa, la gioia del ritorno alla famiglia.
È un personaggio con cui quasi possiamo empatizzare, a differenza della moglie – interpretata in modo straordinario da Sandra Hüller – che è un tipo umano sgradevole: egoista, meschina, altezzosa. Ma tutto sommato “normalmente” sgradevole, come ne è pieno il mondo.
Il tratto comune e saliente dei due protagonisti è il loro punto di vista su quello che succede letteralmente oltre il muro che separa il giardino dal campo di concentramento: non è che “fingano di ignorarlo”, è proprio che lo considerano, semplicemente, il lavoro di Rudolf – uno come un altro, magari un po’ più prestigioso e redditizio di altri.
Proprio questo è ciò che provoca nello spettatore un effetto di straniamento sconvolgente. Un esempio tra mille: quando Hedwig spiega alla madre che davanti al muro pianteranno altri alberi in modo da nasconderlo, è immediatamente chiaro che il punto per lei non è “non dover vedere”, ma una questione soltanto estetica, come piantare l’edera per abbellire un balcone. E questo rende la sua frase infinitamente più spaventosa. È la cifra di tutto il film.
Dalla sceneggiatura alle tecniche di ripresa, tutta la messa in scena è concepita per escludere il campo di concentramento dal nostro campo visivo. Il lager e i suoi orrori in effetti non sono mai rappresentati in immagine, non li vediamo mai.
Sappiamo però che sono lo sfondo dell’intera vicenda, ed è uno sfondo onnipresente, impossibile da ignorare: un effetto raggiunto attraverso gli effetti sonori, curati in modo maniacale (e meritatamente premiati con l’Oscar per il miglior montaggio sonoro), che compongono una partitura fatta di grida soffocate, ordini gutturali, passi strascicati sulla ghiaia, spari. Sentiamo tutto.
E sempre sullo sfondo, oltre il muro, vediamo levarsi ogni tanto colonne di fumo e sappiamo bene che cosa sono. Lo sanno anche i personaggi, ovviamente, tutti i componenti della famiglia Höss: per loro, appunto, è un “normale” luogo di lavoro.
Ci sono solo due eccezioni: la prima è uno dei figli di Rudolf e Hedwig, che sentendo grida più concitate del solito, seguite da uno sparo, guarda fuori dalla sua stanza per un attimo ma subito richiude la tenda per tornare ai suoi giochi.
La seconda è la madre di Hedwig, ospite della figlia per qualche giorno di “villeggiatura”: la notte, tenuta sveglia dai rumori e dalle luci che giungono dal campo, scosta anche lei la tenda della sua finestra e vede i fuochi che salgono dalle ciminiere oltre il muro e compongono un macabro tramonto artificiale: se ne va con il primo treno.
Il bambino e l’anziana sono gli unici due personaggi che, apparentemente, prendono coscienza dell’orrore al di là della tenda e, se non altro, non riescono più a considerarlo “normale”. Scelgono di distogliere lo sguardo.
Per noi spettatori, la tenda è lo schermo cinematografico ed è perennemente aperta sull’orrore. Non possiamo né richiuderla né andarcene, un po’ come il protagonista di Arancia Meccanica durante la “Cura Ludovico”.
A impedirci di distogliere lo sguardo è anche il fatto che le riprese all’interno della casa e del giardino degli Höss sono tutte effettuate con telecamere fisse, come tanti occhi sempre aperti su un reality show (qui un approfondimento interessante sulle tecniche di ripresa). Gli unici movimenti di macchina sono carrellate orizzontali lungo il muro del campo di concentramento, con i tetti spioventi delle baracche sullo sfondo.
Una tecnica che accentua tra l’altro il contrasto tra la natura fittizia dello spazio che vediamo e la natura orribilmente reale di quello che non vediamo.
L’effetto finale, per lo spettatore, è un senso di straniamento che confina con la nausea e davvero ricorda la reazione di Alex di fronte alla prolungata esposizione a scene di violenza nel film di Kubrick. Un effetto amplificato dalle scene di apertura e chiusura del film: uno schermo completamente nero che dura per oltre un minuto, accompagnato in coda dalla musica terrificante e ossessiva composta per l’occasione da Mica Levi.
Un’opera in grado di creare e indurre sensazioni tanto potenti è già di per sé straordinaria. Lo è in questo caso a maggior ragione perché non stiamo parlando di un horror di finzione, ma di un film tragicamente realistico che tratta in modo rigorosamente documentato di eventi storici.
In questo contesto, attraverso una messa in scena tanto complessa quanto efficace l’autore ha voluto veicolare un concetto altrettanto forte: quello che l’Olocausto non sia stata una mostruosa follia collettiva, un incubo da cui per fortuna ci siamo risvegliati, ma una scelta studiata e applicata “razionalmente” da un apparato meticolosamente organizzato per questo scopo. Una scelta che alcuni, come il figlio e la madre di Hedwig, hanno deciso di ignorare, e che in pochi hanno davvero contrastato (nei territori occupati dai nazisti, perlomeno): a rappresentare questi pochi coraggiosi, nel film, è la ragazzina ripresa dalla telecamera termica che di notte nasconde del cibo per i prigionieri, in quella che appare non a caso come una visione onirica, sempre in contrasto con l’iper-realismo delle scene nella casa.
È un’interpretazione che ci toglie qualsiasi alibi e ci pone al contrario di fronte a una totale responsabilità, non solo per il passato ma anche e soprattutto per il presente e il futuro: che cosa avremmo fatto noi? Che cosa faremmo? Che cosa faremo?
Credo che sia anche questo il senso della scena spiazzante collocata appena prima del finale, in cui per la prima (e unica) volta vediamo l’interno del campo di concentramento ma come è oggi – un museo che una squadra di operaie tiene pulito. Quale luogo di orrori odierno sarà un museo tra mezzo secolo? I candidati non mancano, e noi saremo giudicati in base a come ci saremo schierati: saremo stati complici, avremo distolto lo sguardo o avremo agito in qualche modo per fermarli?
Quello scelto da Glazer è l’unico modo davvero efficace di raccontare l’Olocausto, per evitare di trattarlo come un semplice capitolo di storia passata. È un approccio che ricorda molto quello di uno dei romanzi più impressionanti che abbia mai letto, Le Benevole di Jonathan Littel: anche in quel caso il racconto passa dal punto di vista di un ex ufficiale nazista che “spiega”, passaggio per passaggio, la fredda logica che ha portato ad applicare metodi industriali al sistematico sterminio degli ebrei.
Quando si parla di “metodi industriali”, il riferimento è precisamente al rapporto tra il sistema dei campi di concentramento e l’industria tedesca al tempo del nazismo.
Un rapporto che, per quanto non sia il tema principale, emerge chiaramente nel film di Glazer in entrambe le sue direzioni. Da un lato, la tecnologia industriale al servizio della necessità di eliminare gli ebrei il più rapidamente possibile: lo vediamo all’inizio del film quando viene spiegato il funzionamento di una nuova tipologia di camera a gas circolare, a ciclo continuo.
Dall’altro, la forza lavoro dei campi di concentramento al servizio del sistema industriale tedesco, a cui fornisce manodopera a costo zero. Nel film sono citati due dei principali gruppi industriali che hanno attivamente sfruttato gli ebrei rinchiusi ad Auschwitz, impiantando degli stabilimenti nelle vicinanze del campo: Siemens e IG Farben (quest’ultima responsabile anche della fornitura ai campi di concentramento del famigerato Zyklon-B); lo stesso Höss nella scena in cui viene annunciata la deportazione degli ebrei ungheresi si preoccupa di rassicurare i rappresentanti delle industrie che le loro necessità di manodopera saranno adeguatamente tenute in considerazione.
Nel mettere un accento anche su questo tema, Glazer compie un’operazione intellettualmente più onesta, e certamente anche più coraggiosa e importante, di quella a suo tempo compiuta da Steven Spielberg nel suo racconto dedicato all’unico imprenditore nazista “buono”.
In definitiva, ciò che rende La zona d’interesse un vero capolavoro (come in anni recenti ricordo soltanto Django Unchained di Quentin Tarantino) è la capacità del suo autore di instaurare con gli spettatori un dialogo che tocca corde profonde e dura ben oltre i titoli di coda, il tutto attraverso un linguaggio cinematografico essenziale e al tempo stesso straordinariamente complesso, interamente ed efficacemente al servizio della narrazione.
Questo lungo commento vuole essere un omaggio a un film davvero straordinario.