Jobs Act: l’ultima picconata (ma non è abbastanza)

Nemmeno sei mesi dopo l’ultima delle numerose sentenze che hanno smantellato pezzo per pezzo l’odiosa riforma del Jobs Act (qui un riassunto delle puntate precedenti), la Corte Costituzionale interviene nuovamente con due pronunce che completano l’opera di demolizione dell’odiosa e maldestra riforma renziana.

Merita un commento in particolare la prima delle due sentenze (n. 128/2024) che per la prima volta afferma la possibilità di ottenere la reintegrazione, nel regime del Jobs Act, anche nel caso in cui a essere dichiarato illegittimo sia un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ossia intimato per motivi economici e non per mancanze disciplinari del lavoratore.

Qui è utile un breve ripasso.

Come regola generale, ogni licenziamento deve avere un motivo, ed è il datore di lavoro che deve dimostrare in giudizio che il licenziamento, impugnato dal lavoratore, che questo motivo esiste per davvero ed è tale da rendere inevitabile (extrema ratio) la cessazione del rapporto di lavoro.

Nel caso dei licenziamenti di tipo economico, i motivi possono essere le più disparate “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa“, comprese – secondo un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza – quelle dirette a un aumento dei profitti (dunque senza che sia necessario che vi siano delle perdite).

Il giudice non ha alcun potere di sindacare nel merito la bontà delle scelte aziendali, ma deve verificare, sulla base degli argomenti e delle prove fornite dal datore di lavoro:

a) che le ragioni indicate dal datore di lavoro, quali che siano, sono effettive e non surrettizie, e che il licenziamento è davvero conseguenza di queste ragioni;

b) che non fosse possibile evitare il licenziamento ricollocando il lavoratore in un’altra mansione.

Nel regime dell’Articolo 18 (dopo tutta una serie di interventi della Corte Costituzionale), e dunque ancora oggi per tutti i lavoratori di imprese con più di 15 dipendenti assunti prima del 7 marzo 2015, la mancanza anche solo di una di queste condizioni comporta l’illegittimità del licenziamento e il diritto alla reintegrazione.

Il Jobs Act non ha modificato i criteri in base ai quali si stabilisce se un licenziamento è legittimo o illegittimo, ma ha modificato le conseguenze dell’illegittimità, prevedendo che in caso di licenziamento per giustificato motivo dichiarato illegittimo – per la mancanza anche di uno solo dei due requisiti – al lavoratore non spetti mai la reintegrazione, ma soltanto un risarcimento economico.

La Corte Costituzionale ha abbattuto anche quest’ultimo pilastro, dichiarando la norma incostituzionale nella parte in cui non prevede la reintegrazione quando sia accertata in giudizio l’insussistenza del motivo (economico) posto alla base del licenziamento.

La motivazione della Corte si fonda sulla disparità ingiustificata tra licenziamenti disciplinari ed economici dichiarati illegittimi per insussistenza del fatto indicato dal datore di lavoro. Nello schema del Jobs Act, infatti, nel caso di licenziamento disciplinare si ottiene la reintegra, in quello economico soltanto il risarcimento.

Ma se un fatto è inesistente, non ha alcuna importanza se si tratti di un “fatto” economico o disciplinare – tanto non esiste. E prevedere tutele diverse soltanto su questa base significa consentire al datore di lavoro di scegliersi il rischio, a scapito del lavoratore:

Nella misura in cui è possibile per il datore di lavoro estromettere il prestatore dal posto di lavoro solo allegando un fatto materiale insussistente e qualificandolo come ragione d’impresa, la prevista tutela reintegratoria nei casi più gravi di licenziamento (quello nullo, quello discriminatorio, quello disciplinare fondato su un fatto materiale insussistente) risulta fortemente indebolita in quanto aggirabile ad libitum dal datore di lavoro.

Avevo scritto qualcosa di molto simile prima ancora che entrasse in vigore la riforma, nel gennaio del 2015:

Nei soli casi di licenziamento disciplinare giudicati illegittimi per la dimostrata insussistenza del fatto materiale contestato è in effetti prevista la reintegrazione. Ma è un’ipotesi destinata a rimanere puramente teorica: perché mai un datore di lavoro dovrebbe inventarsi di sana pianta un addebito disciplinare, quando molto più facilmente e senza alcun rischio si può inventare una motivazione economica?

Non è che avessi la sfera di cristallo, è che la trappola era proprio in bella vista.

Alla buon’ora, da oggi sarà possibile ottenere la reintegrazione in caso di licenziamento per g.m.o. illegittimo anche nel regime del Jobs Act, ma solo – precisa la Corte Costituzionale – quando manca il primo dei due requisiti.

Invece, nel caso in cui il licenziamento sia dichiarato illegittimo perché non è dimostrata l’impossibilità di ricollocare il lavoratore, questi avrà diritto unicamente a una tutela risarcitoria.

Questa rimane, a questo punto, una delle poche differenze rispetto al regime dell’Articolo 18 post-riforma Fornero, specialmente dopo l’ulteriore intervento della Corte Costituzionale (sentenza n. 129/2024) che riguarda i licenziamenti disciplinari, anche qui estendendo il perimetro della reintegrazione a scapito dell’area del risarcimento.

Come detto, in questo caso anche il Jobs Act prevede la reintegrazione nel caso di insussistenza materiale del fatto, cioè quando risulta che il fatto contestato al lavoratore non sussiste, oppure è privo di rilevanza disciplinare.

La norma stabilisce invece che non spetta la reintegrazione, ma soltanto il risarcimento, nel caso in cui la condotta contestata sussista e abbia rilevanza disciplinare, ma il licenziamento sia sproporzionato – e quindi comunque illegittimo.

La Consulta in questo caso non dichiara la norma incostituzionale, ma impone di interpretarla nel senso che deve considerarsi insussistente il fatto anche quando il contratto collettivo preveda per quella condotta una sanzione “conservativa” – ossia non il licenziamento, ma soltanto una multa o una sospensione.

Perciò, non trattandosi di una questione di proporzionalità, ma di vera e propria insussistenza, il lavoratore licenziato illegittimamente ha diritto alla reintegrazione.


Nel loro complesso, le due sentenze pubblicate ieri sferrano un colpo decisivo all’impianto del Jobs Act, perché ampliano considerevolmente le ipotesi in cui all’illegittimità del licenziamento consegue la reintegrazione, muovendosi in direzione esattamente opposta alle intenzioni del legislatore.

Tutto è bene quel che finisce bene? No di certo.

Una prima considerazione è che, nei nove anni trascorsi dall’entrata in vigore della riforma, decine di migliaia di lavoratori probabilmente hanno perso il posto ingiustamente, o comunque ottenuto un risarcimento inferiore a quello che avrebbero potuto ottenere se sul tavolo ci fosse stata la possibilità della reintegrazione.

In secondo luogo, va detto che rimangono ancora privi dalla tutela della reintegrazione, nel regime del Jobs Act, tutti i licenziamenti economici dichiarati illegittimi per la mancata dimostrazione dell’impossibilità di ricollocazione del lavoratore: sono probabilmente la maggior parte.

Infine, ed è l’aspetto più importante, come ha ricordato più volte e ancora da ultimo la stessa Corte Costituzionale, il vero punto di svolta negativa per i diritti dei lavoratori deve essere individuato nella riforma Fornero che nel luglio 2012 stravolse l’Articolo 18, introducendo per la prima volta la differenziazione delle tutele laddove per oltre quarant’anni in tutti i casi di licenziamento illegittimo era previsto il diritto alla reintegrazione.

Il Jobs Act non ha fatto altro che allargare questa breccia di cui le pur importanti sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, negli anni, hanno soltanto smussato gli spigoli più aspri. Nessuna sentenza potrà mai richiuderla, perché i giudici si possono muovere soltanto nell’ambito delle norme esistenti, sia pure con un margine di movimento tanto più ampio quanto più sciatto è stato il legislatore nello scriverle.

E non potranno chiudere questa breccia neppure i referendum promossi dalla Cgil, che meritano senz’altro di essere votati, ma che oltretutto per quanto riguarda i licenziamenti si limitano a chiedere l’abolizione del Jobs Act, senza toccare la riforma Fornero, senza uscire dal sistema delle tutele differenziate.

Occorre invece che il sindacato impegni le sue risorse per una vera mobilitazione dei lavoratori, che rivendichi e abbia la forza di ottenere il diritto alla reintegrazione per tutti i dipendenti licenziati ingiustamente, quale che sia il motivo.

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