Comincia settembre: per non meno di 250mila docenti precari questo è il periodo snervante dell’attesa di una chiamata per poter lavorare nell’anno scolastico che sta per cominciare.
I numeri sono impietosi: a insegnare senza un contratto di lavoro stabile è circa un quarto dei docenti. È l’ennesimo fallimento della riforma pomposamente battezzata “Buona Scuola” dal governo Renzi che l’approvò nel 2015: tra gli scopi della riforma c’era la drastica diminuzione della precarietà, ma nei nove anni dalla sua approvazione gli insegnanti precari sono raddoppiati, in numero e in percentuale.
Una delle pochissime misure progressive della riforma fu l’istituzione della “Carta elettronica del docente”. Si tratta di un “buono” di 500 Euro all’anno da spendere in materiali destinati alla formazione: materiale audiovisivo, computer e programmi informatici, ingressi a cinema, teatri e musei, etc. “al fine di sostenere la formazione continua dei docenti e di valorizzarne le competenze professionali”.
In sostanza è una quota di salario “in natura”, comunque non insignificante in proporzione ai modesti stipendi degli insegnanti.
Per i docenti precari, però, questa è l’ennesima beffa.
La legge infatti prevede che la Carta Docente spetti soltanto ai docenti di ruolo con contratto a tempo indeterminato. Dunque sono esclusi dal beneficio tutti i docenti precari, compresi quelli – e sono di gran lunga la maggior parte – che di fatto lavorano per tutto o quasi l’anno scolastico, esattamente come i loro colleghi di ruolo.
Considerate le finalità del bonus, ossia di sostegno alla formazione individuale del personale docente, si tratta di una discriminazione che non ha alcuna ragione di esistere.
La pensa così anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che nel maggio del 2022 ha concluso che l’attribuzione della Carta del Docente ai soli docenti di ruolo è discriminatoria perché contrasta con il divieto di trattare i lavoratori a tempo determinato in modo meno favorevole di quelli a tempo indeterminato che svolgono le stesse mansioni.
Sulla scorta di questa sentenza, la Corte di Cassazione lo scorso autunno ha ribadito che non esiste alcuna “ragione oggettiva” per privare del diritto a usufruire della Carta Docente quantomeno quei docenti precari che lavorano per l’intero anno scolastico, ossia quelli titolari di supplenze annuali (fino al 31 agosto) o di supplenze fino al termine delle attività didattiche (fino al 30 giugno).
Nel frattempo il governo Meloni, nell’estate 2023, proprio per sanare questa e altre infrazioni rilevate dall’Unione Europea, aveva emanato un “decreto salva-infrazioni” che prevedeva dall’anno scolastico 2023-2024 un ampliamento della platea dei beneficiari della Carta Docente.
Un ampliamento ridottissimo però, che riguarda soltanto i docenti con supplenze al 31 agosto – una piccola minoranza rispetto a quelli con contratto al 30 giugno. L’ennesima presa in giro insomma, anche perché nulla è previsto per sanare gli anni precedenti.
Ecco perché molti insegnanti – comunque pochi rispetto a tutti quelli che ne avrebbero diritto – hanno iniziato a rivolgersi al tribunale: è l’unica strada che consente, a oggi, di porre rimedio all’ingiustizia. Almeno in parte, perché è comunque previsto che siano persi per sempre i crediti scaduti da più di cinque anni e mai reclamati.
Anch’io ho avuto modo di occuparmi direttamente – con successo – di questo contenzioso.
Nelle loro difese gli avvocati dello Stato neppure contestano più il diritto del lavoratore a ottenere la Carta Docente con tutti gli arretrati (di cinque anni o anche più, se nel frattempo il docente ha avuto l’accortezza di inviare al Ministero una lettera di “interruzione della prescrizione”), prendendo atto dell’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza.
Il Ministero è condannato a pagare non solo tutti gli arretrati della Carta Docente, ma anche le spese legali del lavoratore: d’altra parte sarebbe profondamente iniquo che questi insegnanti dovessero pagare di tasca propria per ottenere un beneficio che spetta loro di diritto, quando basterebbe un decreto di poche righe da parte del governo per sanare tutta la questione riconoscendo a tutti il dovuto, evitando una pioggia di cause.
Un altro buon motivo per tutti i docenti precari per rivendicare questo diritto e fare causa: il suo esito positivo è ormai sostanzialmente certo (a patto di produrre tutta la documentazione che dimostra gli anni di supplenze almeno fino al 30 giugno). Il Ministero ha perfino pubblicato le istruzioni per ottenere materialmente il beneficio all’esito della sentenza.
Anche se non risolveranno affatto il problema della precarietà, i tribunali in questo caso possono almeno restituire un pezzetto di giustizia alle centinaia di migliaia di insegnanti che all’inizio di ogni anno scolastico non sanno ancora dove e quando andranno a lavorare.