Era nell’aria da tempo, alla fine il 28 dicembre è stato pubblicato – ed entrerà in vigore il 12 gennaio – il famigerato “Collegato Lavoro”, un pot-pourri di “Disposizioni in materia di lavoro” estremamente variegate e unite da un unico filo rosso – anzi, nero: complicare ulteriormente la vita ai lavoratori.
Quella probabilmente destinata a creare maggiore scompiglio, nonché la peggiore porcheria dell’intero provvedimento, riguarda l’introduzione di una ipotesi di “dimissioni per fatti concludenti”, finalizzata a colpire i lavoratori che rimangono assenti dal lavoro “per farsi licenziare”:
In caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo. Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza.
Si tratta di una deroga alla regola generale per cui le dimissioni del lavoratore dipendente per essere valide devono essere fatte obbligatoriamente attraverso i moduli disponibili sul sito del Ministero del Lavoro.
La previsione di un meccanismo di controllo istituzionale sulle dimissioni era stata introdotta nel 2012 (e successivamente ripresa con alcune modifiche tecniche nel Jobs Act) per contrastare la prassi assai diffusa delle “dimissioni in bianco”: capitava di frequente, soprattutto nelle aziende medio-piccole, che già al momento dell’assunzione il datore di lavoro facesse firmare al dipendente un foglio bianco, che sarebbe stato riempito al momento opportuno (opportuno per il padrone – si intende) con una dichiarazione di dimissioni. Un modo per evitare i rischi di un licenziamento (che può sempre essere impugnato, e non si sa mai come va a finire) e soprattutto uno strumento potente di ricatto, perché vai poi a dimostrare che la firma l’avevi messa prima!
Ancora poche settimane fa, la Corte di Cassazione ha escluso che si potesse considerare concluso il rapporto di lavoro per “comportamento concludente” del lavoratore che non si fosse presentato in servizio, ribadendo che non è possibile alcuna deroga rispetto alle modalità “protette” di dimissioni previste dalla legge, proprio perché queste “mirano sia a soddisfare l’obiettivo di conferire data certa alle dimissioni per rendere impossibile il fenomeno delle dimissioni in bianco, sia a fornire la garanzia che la volontà del lavoratore di risolvere il contratto di lavoro si sia formata e sia stata espressa liberamente e genuinamente, in assenza di qualunque costrizione esercitata dal datore di lavoro.”
La nuova regola, al contrario, introduce proprio un’ipotesi di dimissioni “per comportamento concludente”, valide senza che sia necessario seguire la procedura di legge, e anzi senza che sia necessaria neppure una dichiarazione del lavoratore. Si presume che il lavoratore volesse dimettersi qualora sia rimasto assente dal lavoro senza giustificazione – o meglio, senza una giustificazione che il datore di lavoro ritenga valida – “oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro” (e qui non si capisce se si tratti del termine che i contratti collettivi prevedono per il licenziamento per assenza ingiustificata, oppure un nuovo termine che dovrà/potrà essere stabilito dai vari contratti).
In questi casi, il datore di lavoro si limita a comunicare il fatto all’Ispettorato del Lavoro, che può (ma non necessariamente deve, anche perché tendenzialmente non ha le risorse per farlo) verificare se la comunicazione è veritiera, e il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore, ossia per dimissioni.
Tocca a quel punto al lavoratore dimostrare di non aver potuto comunicare per tempo “i motivi che giustificano la sua assenza“. Ma intanto che lo dimostra (a chi? come? deve fare una causa in Tribunale o basta un ricorso amministrativo all’Ispettorato? Non si sa, ma in ogni caso il rischio è che ci vogliano mesi) il lavoro lo ha perso, e per giunta non può neppure ottenere la NASpI (ossia l’indennità di disoccupazione).
L’obiettivo sbandierato del provvedimento è proprio questo: colpire e punire i presunti “furbetti” che, volendo lasciare il lavoro e allo stesso tempo percepire l’indennità di disoccupazione che altrimenti non gli spetterebbe, rimangono a casa a oltranza finché il datore di lavoro non si stufa e li licenzia.
Ora, certamente ci sono casi in cui questo accade. Nella stragrande maggioranza, si tratta di situazioni in cui il lavoro è per qualche ragione – quasi sempre per le condizioni ingiuste imposte dal datore – oggettivamente insostenibile e il lavoratore è di fatto costretto a cercare un’alternativa. Nessuno perde un lavoro volentieri, a meno che non ne abbia già un altro che lo aspetta – e in questo caso non ha alcun problema a dare le dimissioni. In quasi tutti i casi, in verità, sono situazioni in cui è il datore di lavoro a volersi liberare del lavoratore, ma non vuole licenziarlo (cosa che potrebbe fare tranquillamente se il lavoratore fosse realmente assente ingiustificato) per uno o più dei seguenti motivi:
- perderebbe degli sgravi fiscali o contributivi
- rischierebbe di vedersi impugnato il licenziamento, specie se l’assenza non è davvero ingiustificata
- dovrebbe versare all’INPS un “ticket” (che dipende dalla durata del rapporto di lavoro: nel 2024 era da un minimo di 635€ a un massimo di 1.900€)
E allora ha mille strumenti per rendere la vita difficile al dipendente, anche senza violare palesemente la legge, già soltanto creando un clima di tensione, mettendolo sotto pressione, etc..
C’è chi resiste, e chi invece no. La nuova norma toglie a tutti i dipendenti uno strumento per resistere a questo tipo di pressioni, e allo stesso tempo toglie un sussidio vitale per quei soggetti deboli, destinati così a crescere di numero, che non riescono a resistere.
Per tutta una fascia di lavoratori – tipicamente i più sfruttati – l’effetto rischia di essere devastante: penso ad esempio agli extracomunitari che hanno necessità di recarsi nei paesi d’origine dai propri familiari, a cui spesso e volentieri vengono negati permessi e ferie e che devono partire comunque. Ora al loro ritorno si troveranno senza lavoro e senza possibilità di richiedere la NASpI, pur senza mai aver avuto alcuna intenzione di dimettersi.
D’altra parte, nella mia esperienza personale, una buona parte dei licenziamenti disciplinari sono per assenza ingiustificata, e in molti casi si tratta di licenziamenti illegittimi (perché l’assenza non era davvero ingiustificata). Per dire, sto scrivendo proprio in questi giorni un ricorso per una lavoratrice – madre separata con tre figli minori – che aveva dovuto assentarsi per qualche giorno per assistere la figlia undicenne ricoverata in ospedale (con una diagnosi di meningite) e a cui è stata contestata l’assenza ingiustificata nonostante avesse tempestivamente comunicato e documentato il tutto.
Con la nuova regola, il datore di lavoro avrebbe potuto direttamente comunicare all’Ispettorato del Lavoro che la lavoratrice era assente ingiustificata (anche se non lo era), e il rapporto di lavoro sarebbe terminato subito, salvo eventuali controlli successivi.
Il che ha conseguenze assurde, oltre che ingiuste, anche sul piano strettamente giuridico, e in particolare per quanto riguarda l’onere della prova. La regola generale infatti vuole che sia il datore di lavoro, che licenzia il lavoratore per ragioni disciplinari, a dimostrare che il licenziamento fosse effettivamente giustificato – ossia che la mancanza del dipendente non solo sia vera, ma sia anche sufficientemente grave da giustificare il licenziamento. Ora, soltanto per l’ipotesi di assenza ingiustificata, l’onere della prova è invertito: il datore di lavoro non deve dimostrare nulla, è il lavoratore a doverlo fare.
Ma non basta. Nel suo accanimento feroce contro i lavoratori più sfruttati, il governo ha completato l’opera inserendo nella legge di bilancio un’ulteriore clausola che aggiunge sopruso all’ingiustizia.
La NASpI infatti è negata non solo a chi “viene dimesso” per assenza ingiustificata, ma anche a chi, regolarmente dimesso, trova rapidamente (ma nemmeno troppo: entro nove mesi) un altro lavoro ma lo perde per qualunque ragione entro le successive 13 settimane – ad esempio perché non ha superato il periodo di prova. Dunque, in questo caso, oltre al danno di aver perso il lavoro del tutto incolpevolmente anche la beffa di rimanere senza nessun sussidio!
Anche quest’altra norma è stata motivata dal ministro Calderone (non a caso già presidente dell’Ordine dei Consulenti del lavoro) con l’obiettivo di stanare i “furbetti della NASpI”. Ma pure in questo caso l’effetto reale della nuova disciplina sarà quello di fornire nuovi e potenti strumenti di ricatto non solo ai vecchi, ma anche ai nuovi datori di lavoro. Creando oltretutto una disparità di trattamento che verosimilmente non sfuggirà, prima o poi, alla Corte Costituzionale. Ma solo dopo che migliaia di lavoratori avranno subito le conseguenze di una legge profondamente ingiusta.
Questa nuova stretta del governo sulla NASpI segue coerentemente la politica di restrizioni dei sussidi inaugurata già all’indomani dell’entrata in carica del governo, con l’abolizione del Reddito di Cittadinanza e la sua sostituzione con l’assegno di inclusione che, secondo le stime di Banca d’Italia, ha escluso dalle principali misure di sostegno circa metà dei nuclei familiari.
L’obiettivo ultimo di questa politica è chiarissimo, ed è quello di rendere i lavoratori ancora più assoggettati di quanto già non fossero al potere dei loro datori di lavoro, ancora più disponibili – o meglio costretti – ad accettare qualunque peggioramento delle condizioni di lavoro pena la perdita di qualsiasi fonte di reddito.
Non che i governi precedenti non perseguissero questo stesso obiettivo, ma è sempre più chiaro che stiamo assistendo a un salto di qualità, legato anche alla congiuntura economica e alla necessità per il padronato – e dunque per i suoi rappresentanti – di raschiare il fondo del barile pur di mantenere i profitti, come sempre sulla pelle dei più sfruttati.
Un risultato che viene ottenuto anche con altre novità contenute nel Collegato Lavoro, in particolare quella che estende (in teoria retroattivamente!) il campo di applicazione dei contratti di lavoro stagionali, ampliando a dismisura la possibilità di utilizzare contratti precari: ne scrisse quando la norma era ancora un disegno di legge Franz Baraggino su Il Fatto Quotidiano, citando anche il mio parere.
Porre un argine a questa offensiva e riconquistare i diritti perduti è sempre più urgente, ed è sempre più evidente che per farlo occorre rompere e rovesciare una volta per tutte questo sistema.