Viva Mickey 17!

Quando si va al cinema alle 10 del sabato mattina il rischio è doppio: se il film non è all’altezza delle aspettative, oltre alla delusione c’è anche la frustrazione per essersi svegliati presto inutilmente.

Non è questo il caso di Mickey 17, il film di Bong Joon-ho, in sala in queste settimane, che segna il ritorno del regista alla fantascienza di critica sociale, dopo Snowpiercer del 2013. In mezzo, aveva girato l’acclamatissimo Parasite vincitore della Palma d’Oro nel 2019 e di quattro Oscar nel 2020.

Il tema comune di questi tre film è la denuncia dell’ingiustizia sociale e, più specificamente, dei meccanismi su cui si regge e si autoalimenta un sistema basato sullo sfruttamento.

In Snowpiercer, protagonisti erano i miserabili relegati nelle carrozze di coda del supertreno dell’umanità superstite in moto perpetuo, condannati a mangiare quasi letteralmente merda e utili soltanto a sfornare figli che lavoreranno, schiavi, per i pochi ricchissimi dei vagoni di testa. Al centro di Parasite era invece la contraddizione agghiacciante tra il seminterrato allagato della famiglia Kim (i “parassiti” del film, a una prima lettura) e la villa scintillante dei Park (i veri parassiti, a ben vedere).

Alla stessa schiera degli “ultimi” appartiene Mickey Barnes, che in un futuro non troppo lontano cerca di sfuggire a un feroce strozzino imbarcandosi nella spedizione spaziale guidata dal miliardario Kenneth Marshall per colonizzare il pianeta Niflheim.

Non avendo nessuna specializzazione utile per la missione, Mickey ha una sola possibilità per essere ammesso a bordo: candidarsi per la posizione di “Sacrificabile”. Grazie a una tecnologia di dubbio rigore etico (e per questo bandita sulla Terra e consentita soltanto nello spazio), una stampante 3D alimentata dagli scarti organici dell’intera astronave è in grado di clonare nel giro di pochi minuti il corpo umano, mentre i ricordi e gli schemi cerebrali, archiviati su un hard disk, saranno scaricati di volta in volta in ogni nuovo clone. Mickey accetta (non del tutto consapevolmente) di essere sottoposto a ogni sorta di test e di svolgere ogni missione pericolosa che sarà ritenuta utile a garantire la sopravvivenza della spedizione: a ogni morte verrà clonato, per poi essere nuovamente “sacrificato” alla prossima occasione.

La storia vera e propria comincia quando Mickey 17 (ossia il sedicesimo clone dell’originario Mickey 1), dato per morto in una missione sul pianeta Niflheim finalmente raggiunto dopo un viaggio di oltre quattro anni, in realtà sopravvive e si trova così a convivere con il clone successivo che nel frattempo è stato realizzato, Mickey 18. Un vero guaio! I “multipli” infatti non sono consentiti e devono essere tutti soppressi, i loro ricordi definitivamente cancellati: una vera condanna a morte.

Come sempre accade nella migliore fantascienza, la descrizione del futuro immaginario non è altro che la denuncia del nostro presente più che reale, in cui tutti quelli che appartengono alla classe degli ultimi sono a tutti gli effetti dei “sacrificabili”: non importa che non siano tecnicamente dei cloni, per i loro sfruttatori sono tutti ugualmente senza alcun valore, se non quello del profitto che possono trarne.

Il mondo di Mickey è uno specchio solo leggermente deformato del nostro.

Kenneth Marshall, lo stupido miliardario, showman e politico fallito che guida la spedizione (un Mark Ruffalo ormai bravissimo nell’interpretare personaggi squallidi, dopo il Duncan Wedderburn di Povere creature!), è un Donald Trump che non ce l’ha fatta, ma strizza l’occhio anche ai vari ricconi americani fissati con l’esplorazione spaziale.

Un’altra fissazione tipica del nostro tempo, quella per i programmi di cucina e i loro chef stellati, è incarnata nel grottesco personaggio di sua moglie Ylfa (Toni Collette) e nella sua ossessione per la cucina gourmet (“il grado di avanzamento di una civiltà si misura dalla qualità delle sue salse“).

La noncuranza di questi privilegiati verso tutto ciò che li circonda – che siano i loro sottoposti o le creature che abitano il pianeta Niflheim – è la stessa dei grandi capitalisti verso le condizioni di vita degli sfruttati (e ricorda la stessa noncuranza dei ricchi Park verso la loro servitù in Parasite) e verso la salvaguardia della natura.

Si tratta ovviamente di una rappresentazione iperbolica, ma se i personaggi sono effettivamente caricaturali (neppure troppo, a ben guardare gli esponenti della classe dominante che affliggono il nostro tempo), le dinamiche di potere e di sfruttamento sottostanti sono descritte senza alcuna esagerazione.

Uno sfruttamento che non è limitato agli esseri umani, ma coinvolge l’ambiente – il pianeta Niflheim e le creature che lo abitano – e non si fa scrupolo di utilizzare ai propri fini qualunque strumento a disposizione, in primis la scienza.

Nel film, osserviamo una tecnologia potenzialmente in grado di risolvere il problema della scarsità – la clonazione – utilizzata invece per infliggere una morte senza fine al “sacrificabile”, ossia per moltiplicare all’infinito la possibilità di opprimerlo. Non diversamente dal modo in cui i nostri capitalisti utilizzano l’intelligenza artificiale: per diminuire i costi e aumentare i loro profitti invece che per alleggerire e migliorare le condizioni di vita di tutti.

E ancora, una volta scoperto che le creature di Niflheim non sono ostili, la scienza è utilizzata per progettare armi di sterminio invece che strumenti per comunicare: ossia per servire gli interessi coloniali dei capi della spedizione, a costo di mettere a rischio la sopravvivenza di tutti.

Imperialismo e colonialismo sono tra i temi principali del film, e non è difficile in fondo per noi spettatori riconoscere nel pianeta ghiacciato di Niflheim una Groenlandia spaziale – anche se questo il regista non lo poteva sapere mentre girava.

Ovviamente la metafora più importante è quella incentrata sulla caratterizzazione dei due “cloni diversi”, Mickey 17 e Mickey 18, interpretati in maniera straordinaria da Robert Pattinson.

I cloni sono gli sfruttati, sacrificabili per definizione, ed è particolarmente significativo che a essere enfatizzata sia soprattutto la remissività dei Mickey, dall’originale che ha scelto di essere sfruttato (certo, perché non aveva alternative, proprio come quei lavoratori che scelgono di lavorare per paghe da fame: non dovrebbero lamentarsene!) fino al numero 17 che fin dalla scena di apertura vediamo rassegnato e perfino contento per la propria sorte. Come certi schiavi in Django Unchained di Quentin Tarantino.

Proprio come il personaggio di Django era “quel negro su diecimila“, il diciottesimo Mickey è quel Sacrificabile su diciotto che prende coscienza della propria condizione e decide di lottare per cambiarla, con rabbia e con aggressività, ma anche con determinazione e coraggio: ed è soltanto grazie alla sua lotta che è possibile il rovesciamento dello status quo.

Il messaggio ottimista del film, più che in Snowpiercer e in Parasite, è che solo gli sfruttati possono essere artefici di questo cambiamento, e che non conta quanto e per quanto a lungo possano essere abituati alle loro catene: verrà il momento in cui se ne libereranno, e in questo modo libereranno tutta l’umanità. Bisogna avere fiducia in questo, e possibilmente, ciascuno nel proprio ruolo, agire quotidianamente per preparare e facilitare questa presa di coscienza.

Dopo tutto è valsa la pena di svegliarsi presto il sabato mattina.

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