Dal diritto al lavoro alla precarietà

Pubblico qui la traccia del mio intervento alla conferenza organizzata dall’ANPI, che ringrazio per l’invito, a San Giorgio su Legnano il 25 ottobre 2012. Si tratta di materiale in parte tratto, rielaborato e riorganizzato, da articoli già pubblicati sul sito.

Il processo di erosione dei diritti dei lavoratori è iniziato negli Anni ’80 e non si è mai interrotto, ma ha subito un’enorme accelerazione negli ultimi due anni, con una serie di interventi legislativi che hanno avuto come obiettivo e come risultato trasferire gran parte del “rischio d’impresa” dall’imprenditore ai lavoratori e, in questo modo, creare un sistema in cui il lavoratore sia sempre sotto ricatto e il datore di lavoro ne possa disporre a suo piacimento.

Il “Collegato lavoro”

Prima il “Collegato lavoro”, entrato in vigore nell’ottobre 2010, ha limitato fortemente la possibilità di far valere l’illegittimità dei contratti precari imponendo un termine di 60 giorni per l’impugnazione di contratti a termine, in somministrazione, a progetto, e perfino per far valere la natura non genuina degli appalti: l’effetto immediato fu una colossale sanatoria al momento dell’entrata in vigore della legge, per tutti i precari che non sapevano della nuova scadenza; l’effetto permanente è stato porre i precari, alla scadenza del contratto, di fronte alla scelta fra impugnare subito o attendere un eventuale rinnovo, che poi nella maggior parte dei casi non arriva comunque, e nel frattempo perdere ogni diritto. Prima non era così, perché per impugnare il contratto non c’era un termine e si poteva aspettare di essere sicuri che con quel datore non si sarebbe lavorato più. Fra i pochissimi elementi positivi della riforma Fornero c’è aver aumentato il termine per l’impugnazione da 60 a 120 giorni: non è certo sufficiente ma è sempre un po’ meglio.

Nello stesso tempo, il Collegato lavoro ha forfetizzato il risarcimento del danno pagato dal datore di lavoro in caso di condanna, fissando un tetto massimo invalicabile che non tiene più conto del danno effettivamente subito da un lavoratore ridotto illegittimamente in condizioni di precarietà, ossia di quanti mesi è stato disoccupato dopo la scadenza del contratto illegittimo.

Con la stessa legge, è stata introdotta anche la possibilità di risolvere le controversie di lavoro in sede arbitrale, ossia davanti a “giudici” privati che possono decidere anche in base a “equità”, e quindi anche in deroga alla legge e ai contratti collettivi. Qualcuno ricorderà che inizialmente questa possibilità avrebbe dovuto essere estesa anche alle controversie in materia di licenziamento, con la possibile disapplicazione dell’art. 18. Ma questo tentativo fu sventato da una tempestiva mobilitazione e nella versione definitiva i licenziamenti vennero lasciati fuori.

L’art. 8 della manovra di settembre 2011

Circa un anno dopo, la manovra finanziaria del settembre 2011 ha introdotto con il famigerato art. 8 la possibilità che accordi sindacali anche aziendali prevedano deroghe peggiorative non soltanto rispetto ai contratti collettivi nazionali ma anche rispetto alla legge, in quasi tutti gli aspetti del rapporto di lavoro e anche per quanto riguarda le conseguenze della cessazione illegittima del rapporto: è stata la prima picconata all’art. 18 dello Statuto, ma interessava anche, potenzialmente, i contratti precari illegittimi.

Ecco in particolare in quali settori è possibile, con accordo delle rappresentanze sindacali aziendali o territoriali, derogare alla legge:

a) impianti audiovisivi e nuove tecnologie: con un tratto di penna si può cancellare a livello aziendale o territoriale la tutela dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori che da quarant’anni vieta “l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori“. Il luogo di lavoro viene sempre più concepito come dominio assoluto del datore di lavoro, vero e proprio padrone che può mettere ovunque occhi e orecchie.

b) mansioni del lavoratore, classificazione e inquadramento del personale: in deroga al principio fondamentale, sancito dalla legge, per cui un lavoratore non può essere assegnato a mansioni inferiori a quelle per cui è stato assunto, aziende e rappresentanze sindacali compiacenti potranno consentire, ad esempio, che ai dipendenti sgraditi siano assegnate mansioni peggiori, magari per spingerli a dimettersi.

c) contratti a termine (assunzioni precarie senza neppure il blando controllo di legge), contratti a orario ridotto, modulato o flessibile (diritto di vita e di morte sui ritmi di vita dei lavoratori), regime della solidarietà negli appalti (azzerata la tutela del dipendente dell’appaltatore che non possa rivalersi sul committente); e casi di ricorso alla somministrazione di lavoro.

d) disciplina dell’orario di lavoro: saltano anche i pochi paletti fissati dalla legge in tema di limite al numero di ore di lavoro, riposi, pause etc.

e) modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro: ai lavoratori precari può essere preclusa la stabilizzazione anche nel caso in cui dovessero ottenere giustizia in tribunale; quelli fissi potevano già essere privati per accordo aziendale dell’articolo 18!

Va sottolineato come questo intervento legislativo fosse anticipato, almeno in parte, dall’accordo sindacale interconfederale del 28 giugno 2011, che sarebbe stato ratificato poche settimane dopo l’entrata in vigore della manovra finanziaria, che addirittura si concludeva con l’auspicio che il Governo intervenisse direttamente per rafforzare la contrattazione aziendale e territoriale (ovviamente a scapito di quella nazionale). L’accordo, espressamente recepito dall’art. 8, introduceva già – per la prima volta – la possibilità per i contratti sindacali aziendali di derogare in peggio rispetto alla disciplina dei contratti collettivi nazionali (ma non della legge), anche se in un ambito più limitato e soprattutto con esclusione dei licenziamenti. L’art. 8 della manovra del Governo Berlusconi abbatteva del tutto un muro in cui i sindacati confederali  avevano aperto il primo varco, e che era stato fino ad allora considerato invalicabile.

Del resto, il rapporto fra l’accordo di giugno e l’art. 8 della manovra è chiarito dall’ultimo comma della norma, scritto praticamente sotto dettatura da Marchionne per rendere inattaccabili gli accordi-ricatto FIAT dell’anno precedente, non coperti dal patto interconfederale, la cui validità è estesa per legge anche ai contratti aziendali sottoscritti prima del 28 giugno.

La riforma Fornero

La Riforma Fornero, entrata in vigore nel luglio di quest’anno, ha chiuso il cerchio, colpendo con analoga violenza i diritti dei lavoratori “stabili” e quelli dei precari. Come tutti sanno, ha svuotato l’art. 18 dello Statuto del suo contenuto di tutela, eliminando nella maggior parte dei casi il diritto alla reintegrazione nei casi di licenziamento dichiarato illegittimo. Ma ha anche liberalizzato i contratti a termine eliminando l’obbligo di motivare quelli di durata inferiore a un anno – rendendo quindi l’assunzione a termine la regola laddove la legge in precedenza li considerava l’eccezione. E ha pure ampliato indiscriminatamente l’ambito dell’apprendistato, che è una forma di precarietà mascherata oltre che agevolata per il datore di lavoro, eliminando molti dei vincoli e dei controlli che dovrebbero evitarne l’abuso.

Il nuovo articolo 18 in particolare prevede la reintegrazione di fatto soltanto per i licenziamenti illegittimi di tipo disciplinare, e nemmeno per tutti, essendo limitata la possibilità di essere riammessi nel posto di lavoro solamente ai casi in cui il comportamento denunciato dal datore non sussista o sia punito meno severamente dai codici disciplinari o dal contratto collettivo. Per i licenziamenti economici, invece, la regola diventa un mero risarcimento economico fra le 12 e le 24 mensilità, dunque, oltretutto, mediamente inferiore a quello previsto prima; come fin da subito ha chiarito Monti senza lasciare spazio a dubbi, per questo tipo di licenziamenti la reintegrazione (teoricamente prevista per i casi in cui il motivo economico sia “manifestamente insussistente”) è un’ipotesi praticamente irrealizzabile. È addirittura previsto uno sconto per i padroni più furbi, che omettano del tutto la motivazione del licenziamento: in questo caso, a meno che il lavoratore riesca a dimostrare che il licenziamento aveva in realtà un ben preciso motivo illegittimo (dimostrazione pressoché impossibile), la reintegrazione sarà comunque esclusa e il risarcimento sarà dimezzato.

In un quadro complessivo più insicuro per tutti i lavoratori, la riforma ha ridotto le tutele per la disoccupazione, eliminando del tutto l’indennità di mobilità in favore di un unico trattamento, l’ASPI che equivale sostanzialmente alla vecchia disoccupazione, che lascia fuori ancora una volta gli iscritti alla gestione separata (contratti a progetto), e che per giunta è vincolata, per via dell’obbligo di pareggio di bilancio costituzionalizzato, alla copertura finanziaria da parte dell’Amministrazione.

Conclusioni

Le controriforme hanno ottenuto i risultati prefissati, su tre fronti differenti: da un lato oggi sono consentiti ai datori di lavoro comportamenti che solo due anni fa sarebbero stati considerati illegittimi: è stata cioè alzata la soglia di “ingiustizia” che un lavoratore è obbligato a tollerare prima di poter rivendicare un diritto; dall’altro è più difficile oggi, anche nei casi in cui esiste in astratto il diritto a una tutela, poterla esercitare efficacemente: in questo senso è significativa, e non marginale nel ridurre la tutela effettiva, l’introduzione nel luglio 2011 di una tassa a carico di chi voglia promuovere una causa di lavoro, il c.d. “contributo unificato”, benché ne siano esentati i lavoratori con redditi bassi; infine, ha ridotto sensibilmente le conseguenze che i datori di lavoro subiscono nei casi (sempre meno) in cui un comportamento illegittimo sia comunque accertato, specialmente per quanto riguarda l’abuso (pressoché costante) di contratti precari e i licenziamenti illegittimi.

L’effetto di questo triplice attacco è micidiale, ed è il meccanismo attraverso cui gli effetti della crisi vengono fatti pagare, in primissima battuta, ai lavoratori, scaricando su di loro la maggior parte dei rischi d’impresa: oggi il datore di lavoro, ancor più chiaramente che in passato, è il padrone, e tutti i lavoratori sono di fatto precari.

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