Questa che segue è una relazione tenuta a un’assemblea di approfondimento sul tema della Resistenza sul confine orientale: non si tratta di un testo particolarmente ampio né originale, ma costituisce piuttosto una sintesi di quanto scritto da studiosi che si sono approfonditamente occupati della questione, come Gabriele Donato. Credo che possa comunque fornire del materiale utile a chi voglia approcciarsi alle complesse vicende del confine orientale italiano a cavallo della II Guerra Mondiale, vicende che tornano alla ribalta ogni 10 febbraio quando vengono sistematicamente strumentalizzate dal peggior revisionismo.
Qui non intendo affatto compiere un’apologia del regime stalinista della ex-Jugoslavia, né giustificare alcunché, ma soltanto cercare di portare alla luce alcuni dati, storici e politici prima ancora che numerici, che consentono di comprendere e interpretare gli eventi in un modo più equilibrato.
Riferimenti geografici: per “confine orientale” intendiamo una zona piuttosto vasta che comprende quella che noi chiamiamo Venezia Giulia, ossia il territorio che comprende Gorizia, Trieste, l’Istria fino a Fiume. Solo una parte molto piccola di questo territorio è oggi situata in Italia, il resto è suddiviso fra Slovenia e Croazia.
Il primo dopoguerra: la regione fu interamente sotto il controllo dell’impero austro-ungarico fino alla I guerra mondiale. I trattati di pace fra il 1920 e il 1924 consegnarono al Regno d’Italia quasi tutta la regione, comprese aree popolate interamente da sloveni e croati (oltre mezzo milione).
Fino ad allora le divisioni nazionalistiche tra popolazione italiana e slava non furono significative, anche perché entrambe condividevano l’assoggettamento alla dominazione austriaca: si mantennero lingue e culture separate (italiano, friulano, veneto, sloveno, croato) ma in una situazione di sostanziale commistione, tanto che molti italiani avevano cognomi slavi pur senza ricordare le proprie radici slave. In particolare nella classe operaia non c’era una differenziazione su base etnica: nella zona industriale fra Monfalcone e Trieste lavoravano insieme e nelle stesse condizioni operai italiani e slavi.
La reazione seguita al Biennio Rosso trovò nel nazionalismo uno strumento fondamentale per dividere la classe operaia e nel fascismo l’alleato ideale. La sovrapposizione fra struttura economica e istituzionale e fascismo cominciò nella regione prima che nel resto d’Italia, e l’adesione della grande borghesia nazionalista al fascismo fu pressoché completa fin da prima dell’avvento del regime. Se da un lato avvenne una stretta identificazione fra nazionalismo e fascismo, dall’altro vennero assimilati gli oppositori politici e le minoranze etniche: gli operai in sciopero venivano arrestati e condannati per “sentimenti antinazionali”.
Quando il fascismo divenne a tutti gli effetti lo Stato, la repressione si intensificò e divenne sistematica. L’obiettivo dichiarato era quello della “snazionalizzazione” dei territori appartenenti al Regno d’Italia, e venne perseguito con l’annientamento di tutte le espressioni della cultura slava, con una serie di misure legali e fiscali repressive nei confronti delle popolazioni non italiane, con la persecuzione politica e le condanne. La chiusura delle società di mutuo soccorso e l’imposizione di condizioni durissime per l’accesso al credito presso gli istituti italiani, ad esempio, costrinse migliaia di contadini slavi a indebitarsi verso banche italiane e li pose nell’impossibilità di pagare i propri debiti, consentendo così ondate di pignoramenti e alienazioni che di fatto comportarono l’espulsione dei piccoli proprietari slavi, sostituiti da italiani, veri e propri “coloni”.
I comunisti e la questione nazionale: fin dagli anni Venti erano sorti nei territori slavi all’interno del Regno d’Italia dei movimenti di resistenza antifascista, di ispirazione nazionalista. Il nazionalismo jugoslavo, in particolare, poneva tra le sue rivendicazioni quella dell’annessione a un futuro Stato slavo delle parti della Venezia Giulia a maggioranza italiana, Trieste e Gorizia.
Differente era la posizione del PCd’I rispetto alla questione nazionale, in quel periodo: al congresso di Lione del 1926, era stata approvata la tesi per cui occorreva sostenere la lotta per l’autogoverno degli sloveni e dei croati, ma allo stesso tempo, ancora nel 1933, veniva espressa una dichiarazione comune dei partiti comunisti italiano, jugoslavo e austriaco in favore della salvaguardia del diritto all’autodeterminazione non soltanto del popolo sloveno rispetto a Italia e Serbia, ma anche delle minoranze italiane, croate e tedesche in territorio sloveno.
C’era quindi uno scontro in atto fra le organizzazioni comuniste, che spingevano per l’unità fra il proletariato italiano e le minoranze oppresse nella prospettiva della rivoluzione internazionale, e i nazionalisti sloveni e croati.
A partire dal 1934, tuttavia, con la svolta dell’Internazionale e l’apertura verso i fronti popolari nazionali contro il nazifascismo, la prospettiva internazionalista e rivoluzionaria venne abbandonata in favore dei movimenti di resistenza nazionale. Nella Venezia Giulia, l’egemonia del partito comunista jugoslavo anche rispetto a quello italiano fece sì che il PCd’I abbracciasse sostanzialmente senza riserve la prospettiva dell’irredentismo slavo.
L’occupazione dei Balcani e la Resistenza jugoslava: con l’intervento tedesco nei Balcani nell’aprile del 1941, l’Italia poté annettersi la provincia di Lubiana, a est, e la Dalmazia, lungo la costa adriatica; inoltre occupò il resto della Croazia sud-occidentale.
La repressione delle etnie slave fu violentissima e rispose anche all’esigenza di controllare il territorio, dal momento che immediatamente si erano formati movimenti partigiani, in Slovenia (OF) e poi nell’intera regione occupata dai nazifascisti (AVNOJ). In particolare nei confronti degli sloveni furono messe in atto politiche che rasentavano il genocidio: in più occasioni gli ufficiali incaricati del controllo del territorio si dichiararono favorevoli alla deportazione in massa di tutti gli sloveni e alla loro sostituzione con coloni italiani. Questo di fatto non avvenne per l’impossibilità logistica di una simile operazione, ma furono comunque istituiti 31 campi di concentramento nella zona, di cui 26 in territorio italiano, e furono deportate, secondo i dati più attendibili, circa 100.000 persone. Complessivamente, tra la sistematica distruzione degli abitati, i rastrellamenti e le rappresaglie, morirono oltre 250.000 slavi (e 100.000 greci) nel periodo dell’occupazione italiana fino al settembre 1943.
La Resistenza jugoslava si spinse fin dalla primavera del 1942 nei territori di Trieste e Gorizia, appoggiata anche dai militanti comunisti italiani.
Il crollo del fascismo e l’insurrezione dell’Istria: subito dopo l’8 settembre 1943, il collasso del fascismo non comportò la distruzione della struttura di potere nei territori giuliani; al contrario, non vi fu un vero ricambio nei vertici delle strutture statali e le manifestazioni di massa che si verificarono dopo l’armistizio furono duramente represse.
Soltanto nelle zone interne dell’Istria la struttura statale fu rapidamente travolta da una vera e propria insurrezione di massa delle popolazioni contadine croate, che furono proclamate annesse alla Croazia. La violenza popolare fu in effetti scatenata nei confronti dei vertici militari e istituzionali italiani, e nei confronti di tutti gli italiani che furono ritenuti responsabili dello sfruttamento e dell’oppressione subiti dai croati nei 20 anni precedenti.
L’insurrezione provocò, secondo le stime più attendibili, circa 500 vittime fra gli italiani (i resti di circa 300 corpi furono recuperati nelle foibe), principalmente militari, rappresentanti delle istituzioni, proprietari terrieri, ma anche, in generale, figure riconosciute autorevoli nelle comunità italiane, e ritenuti simbolo dell’oppressione subita dalle masse croate nel ventennio precedente.
Nel novembre 1943 le truppe tedesche ripresero il controllo della regione, facendo strage della popolazione istriana (circa 13.000 morti). Con la collaborazione dell’apparato fascista prontamente ricostituito (mai di fatto dissolto) e il sostegno degli ambienti industriali e finanziari triestini, che temevano in particolare l’avanzata rivoluzionaria dei partigiani jugoslavi, i tedeschi costituirono sui territori occupati da Udine a Zara la Zona d’operazione del Litorale Adriatico.
Le due Resistenze: con la caduta del fascismo nel settembre 1943, alla Resistenza jugoslava già attiva si affiancò un autonomo movimento resistenziale italiano, organizzato nella forma del CLN.
Dato il carattere e le rivendicazioni nazionali di entrambi i movimenti partigiani, fin da subito la collaborazione fu difficoltosa. Il PCI svolse per parecchi mesi una funzione di mediazione fra CLN e AVNOJ, cedendo (come ovunque) rispetto al CLN sulla questione della rivoluzione e cedendo rispetto ai partigiani jugoslavi sulla questione dei futuri confini nazionali, con il CLN che al contrario non poneva minimamente in discussione l’integrità dei confini scaturiti dai trattati successivi alla I guerra mondiale.
L’arresto da parte dei tedeschi di gran parte del suo ceto dirigente nell’autunno 1944, fece pendere definitivamente la bilancia del PCI in favore delle istanze nazionaliste del movimento resistenziale jugoslavo, egemonizzato dal ben più autorevole partito comunista jugoslavo. Del resto, il proletariato urbano italiano delle principali città industriali, Trieste, Monfalcone e Gorizia, condivideva le stesse parole d’ordine dell’annessione dei territori giuliani alla futura Jugoslavia, anche nella prospettiva dell’instaurazione del socialismo che appariva più facilmente realizzabile all’interno di uno Stato jugoslavo che nell’Italia post-bellica.
Vi fu così una spaccatura fra il PCI e il CLN e le formazioni partigiane comuniste italiane accettarono di passare sotto il diretto controllo militare della Resistenza jugoslava, e da queste successivamente inviate a combattere nell’interno della Jugoslavia, lontano dal confine.
Emblematica delle tensioni fra i due movimenti resistenziali fu il cosiddetto “eccidio di Porzûs”, che vide l’uccisione di una quindicina di partigiani della Brigata Osoppo, composta principalmente da cattolici e socialisti, da parte di un gruppo di partigiani comunisti.
Nell’aprile 1945 fallirono le trattative fra OF e CLN per la liberazione di Trieste, che fu quindi “liberata” due volte: la prima dagli sloveni, alla fine di aprile, e la seconda dalle truppe britanniche (neozelandesi) all’inizio di maggio. Furono effettivamente due “liberazioni” distinte e confliggenti, che riflettevano la profonda divisione della popolazione della città fra slavi e comunisti da un lato, nazionalisti italiani dall’altro.
Le foibe: a seguito dell’occupazione militare jugoslava nei territori di Trieste e Gorizia, un’ondata di repressione venne scatenata dai quadri militari e politici jugoslavi nei confronti di fascisti e collaborazionisti nelle città giuliane. Un migliaio furono gli italiani rastrellati, deportati e dispersi in quelle città, e almeno altrettanti in tutto il resto del territorio giuliano, in Istria e in Dalmazia (solo parte dei quali infoibata ad esecuzione avvenuta): rispetto all’insurrezione dell’Istria, si può affermare che le vittime di questa seconda ondata di violenza furono principalmente effettivi o potenziali nemici del costituendo regime socialista, e che in generale la repressione venne in qualche modo “pilotata” dall’alto, e non fu semplicemente frutto della rabbia popolare.
In generale, sia le violenze in Istria nel 1943 che quelle negli altri territori giuliani nel 1945, possono essere inserite, anche dal punto di vista quantitativo, nei moti violenti che seguirono in tutta Europa il collasso del nazifascismo, e che tutto sommato si possono considerare inevitabili nel corso di un processo rivoluzionario come quello che attraversò la Resistenza jugoslava e fu consolidato nel dopoguerra.
Il periodo post-bellico e l’esodo degli italiani: tra la fine del 1943 e il 1956 quasi tutti gli italiani che vivevano nei territori passati sotto il controllo jugoslavo (circa 300.000) abbandonarono la loro terra di origine.
Sull’esempio dello stalinismo, lo Stato comunista jugoslavo, nato con il decisivo contributo dei gruppi nazionalisti slavi, non affrontò minimamente la questione nazionale relativa alle consistenti minoranze italiane nei territori che erano stati parte del Regno d’Italia. Man mano che i trattati di pace riconoscevano alla Jugoslavia la sovranità sui territori precedentemente italiani, si verificò l’esodo degli italiani che vi risiedevano (in alcuni casi anche da prima dell’occupazione del Regno d’Italia).
Ultimi a fuggire furono gli abitanti della fascia costiera nord-occidentale dell’Istria, quando fu definitivamente abbandonato, nel 1953, il progetto della costituzione di uno stato cuscinetto fra Italia e Jugoslavia (il Territorio Libero di Trieste) e fu resa definitiva la sovranità dell’Italia su Trieste e della Jugoslavia sulla zona restante.
Tra le motivazioni dell’esodo, sicuramente giocò un ruolo il timore di rappresaglie analoghe a quelle verificatesi in Istria nel 1943 e nel resto del territorio giuliano nel 1945. Il regime jugoslavo inoltre perseguì attivamente una politica nazionalista verso le minoranze italiane, che furono progressivamente discriminate sul piano economico e culturale.
In un primo tempo gran parte del proletariato italiano nelle regioni amministrate dalla Jugoslavia, prevalentemente comunista, si mantenne favorevole al nuovo regime (vi fu anche un “controesodo” di militanti comunisti verso la Jugoslavia, trattandosi del più prossimo Paese socialista). Ma dopo la spaccatura tra Stalin e Tito nel 1948, con l’appoggio incondizionato del PCI all’Unione Sovietica, non vi furono più nuclei significativi di italiani filo-jugoslavi.
Conclusioni: se non fosse che non c’è nulla da ridere, sarebbe ridicola soltanto l’idea di paragonare la violenza usata dai partigiani di entrambe le nazionalità alla violenza nazifascista, non solo e neppure tanto per l’incredibile sproporzione numerica tra le vittime, quanto ancora di più per le motivazioni alla base dei due fenomeni: sfruttamento, repressione, genocidio da un lato, dall’altro la liberazione dall’oppressione e il tentativo di creare una società più giusta.
Sgombrare il campo da questa polemica ripugnante, che di anno in anno compie un vero e proprio ribaltamento della verità storica, è purtroppo la necessità più urgente di fronte al revisionismo ormai dilagato. Senza questa spiacevole incombenza, sarebbe senz’altro più interessante osservare il ruolo nefasto giocato anche in queste vicende dallo stalinismo, sia nella sua versione originale che nella variante titoina: alla teoria del “socialismo in un solo paese” si deve la separazione tra le istanze di liberazione italiana e jugoslava, e l’incapacità di gestire in modo democratico ed equo la questione delle minoranze anche all’interno dello stato jugoslavo.
Un approccio differente verso la necessità di “esportare la rivoluzione” e di unire la classe lavoratrice di tutti i paesi non in base alle esigenze dominanti di uno stato solo, ma allo scopo di favorire un’autentica rivoluzione anche negli altri stati, avrebbe potuto condurre a un finale diverso. La Resistenza italiana, anche sotto l’influsso della vittoria dei socialisti in Jugoslavia, avrebbe potuto essere un altro tassello di una “rivoluzione permanente” che non si è mai verificata, invece di concludersi con una rivoluzione mancata.
FONTI E APPROFONDIMENTI
Gabriele Donato, La lotta partigiana presso il confine orientale: una rilettura necessaria
Ivan Serra, I crimini dell’Esercito italiano in Jugoslavia
Alessandra Kersevan, I campi di concentramento in Friuli
Claudia Cernigoi, Operazione foibe tra storia e mito, Kappa Vu, 2005