(da una storia vera)
Piove da tanti giorni che non ricordo più come sia fatto il sole. È mattino presto e non c’è tempo, è ora di andare, di lasciare questa città ai suoi abitanti. Morti viventi.
Alla fermata del trasporto n. 3 c’è già ressa, mi chiedo come faremo a salire tutti. Ma non ho scelta, dovrò salire su quel mezzo se voglio farcela: l’ultimo treno passa tra meno di mezzora e andare a piedi fino alla stazione sarebbe un suicidio.
L’attesa è snervante, tutti guardano tutti con sospetto per cogliere i primi segni del contagio, la tensione è palpabile, basta una scintilla per far scoppiare un incendio. Se il trasporto tarda ancora, non ho dubbi che il panico avrà presto il sopravvento.
Eccolo, finalmente. Non rallenta. Non rallenta. È pieno, e non si ferma. Bestemmie sorde, ma di sicuro non mute. Bisogna aspettare quello dopo.
Sotto la pioggia incessante il giaccone comincia a scolorirsi: chissà che cosa c’è in quell’acqua. Nei due metri quadrati sotto l’unico balcone non meno di dieci persone si pestano i piedi a vicenda. Io preferisco bagnarmi ed essere più vicino ai portelli quando si apriranno.
Anche il trasporto successivo è stracolmo, ma in tre si mettono in mezzo alla strada per costringerlo a fermarsi e ad aprire le porte. Sono il primo a salire, riesco a incastrarmi appena sopra il predellino, appoggiando solo le punte dei piedi. Da sotto, una vecchia cerca di afferrarmi lo zaino per salire anche lei. Con un calcio in pieno volto mi libero. “Era infetta, avete visto gli occhi?” Nessuno fiata.
Il respiro di non meno di duecento persone, in uno spazio che ne dovrebbe contenere cinquanta, impregna ogni cosa e appanna gli occhi, oltre ai vetri. L’odore è indicibile. Ho un ombrello piantato nel costato, e in bocca i peli del giaccone di un tale, vestito da esploratore artico. Il silenzio è surreale. Il mio vicino, a una spanna da me, cerca di trattenere un colpo di tosse. Nessuno sembra accorgersene tranne me, incrocio il suo sguardo, è pulito. Lo tranquillizzo con un cenno, non cerco guai. Voglio solo andarmene.
In piazza c’è il secondo punto di rendez-vous. Il trasporto rallenta e si ferma. Qualcuno da fuori preme per salire, ma da dentro alcuni anziani devono scendere (perché?): non sono in una bella posizione. I vecchi sbraitano e spingono per farsi strada, ombrelli e borse si incastrano dappertutto. Una nanerottola canuta si appoggia al mio vicino, quello le addenta un braccio. Forse non era così pulito. Con uno spintone l’esploratore e io li scaraventiamo entrambi giù dal trasporto. Salgono in quattro in una frazione di secondo, e in una frazione di metro quadrato. Mentre il portello si chiude, con la coda dell’occhio intravedo il mio vicino di prima con i denti ben piantati nella giugulare della vecchia. Altri accorrono al banchetto dalle vie traverse sulla piazza.
Non ci sono altre fermate, si fila diretti verso la stazione. Con una manica del giaccone faccio un cerchio nella condensa. Figure tremolanti si avvicinano ogni volta che rallentiamo, e ci costringono a rallentare ulteriormente. Si muovono piano, le braccia tese in avanti: non c’è dubbio di che si tratti. Ogni tanto si sente un tonfo sulle pareti metalliche del trasporto, qualcuno là fuori è stato travolto. Poco male. Dio, fa’ che non ci blocchiamo.
Lo fa. Il trasporto si ferma a cento metri dai binari. I morti viventi sono ovunque, appena si aprono le porte protendono braccia e mascelle. I cento metri più importanti della mia vita. Un respiro profondo, il portello si apre, mi catapulto fuori. Vorrei. La cinghia dello zaino è incastrata nell’ombrello di un vecchio. Tiro secco, più che posso: lo zaino è libero, il vecchio è per terra. Non è un mio problema.
Io di problemi ne ho già tanti così: i morti viventi sono ovunque. L’ho già scritto? Può darsi, ma non ho il tempo di rileggere: devo soltanto correre. Corro a perdifiato scartando gli affamati che mi si parano di fronte schiumanti. Il treno è già sul binario. Accelero e scendo i gradini a quattro per volta. Dietro di me una processione di zombie, come topi dietro al pifferaio magico. Mi giro appena il tempo di vedere l’esploratore sopraffatto, non è stato abbastanza veloce: peccato, avremmo potuto fare amicizia. I miei amici di un tempo sono tutti cadaveri, i più fortunati a tempo indeterminato, gli altri precari. In fondo, non è cambiato niente.
Ancora uno sforzo. Esco dal tunnel direttamente sul binario. Il treno è lì, fermo, ma le porte sono chiuse. Dal passaggio emergono le teste dei morti. Non devo cedere al panico, non può finire così. Infatti. In testa al convoglio, cinque o sei carrozze più in là, si intravede la sagoma del controllore, ancora a terra.
“ASPETTATE!” Presto, più presto, l’ultima speranza corre con me sulla banchina. La sirena annuncia la partenza, le porte si chiudono mentre con le ultime forze salto dentro.
Il treno si muove, lentamente. Fuori, facce senza volto premono stupide contro i finestrini. Dentro, i passeggeri tirano un sospiro di sollievo e chiudono le tendine, per non vedere e non pensare al pericolo scampato. Una bambina sovrappone la sua mano a quella di un appestato di fuori, ride. La mamma l’allontana dal vetro mentre il treno si allontana dai morti viventi.
Mi siedo nell’unico posto libero, lo zaino e il giaccone scomodi sulle ginocchia, vampate di aria calda e sporca da sotto la camicia appiccicata dal sudore. L’affanno della corsa mi spezza il respiro, tossisco una volta, due volte. La ragazza seduta di fronte mi guarda strano: sarà l‘odore. La ferita sul braccio mi fa male. Chiudo gli occhi. La ragazza grida. La ferita sul braccio. Ho fame.